LAURA NOVELLI | La trascinano legata a una fune attraverso la platea sbucando dal fondo della sala come se provenissero da un tempo ‘altro’: sospeso tra barbarie antica e sacralità laica, selvatichezza animale e supplizio divino. Lei – nuda, vagamente zoppicante, un campanaccio al collo, i lunghi capelli neri a coprirle seno e addome, gli occhi luminosi attraversati da un sorriso ingenuo – si lascia trainare come fosse una ‘capra da scannare’, un animale da circo, un fenomeno da baraccone. Poi rimane immobile sul proscenio: agita le braccia, si tocca la schiena più volte, quasi a dover scacciare via degli insetti da quel corpo di donna/bambina che sembra non appartenerle. Il tempo è dilatato. Gli spettatori la guardano in silenzio.
Si celebra in questo mondo contadino e primitivo il rito di iniziazione di Concetta, figlia di un pastore siciliano che – siamo nei primi anni ’40 del Novecento – vende l’innocenza della ragazza al bordello del paese in cambio di qualche capra con cui tirare a campare. Ma Concetta non è una giovane come le altre. Semplicemente perché, nella sua istintiva-candida-santa-naturale purezza, ella è di un altro mondo.
Arrivato al teatro India di Roma dopo una corposa tournée e atteso a Firenze con repliche dal 7 al 9 marzo, Immacolata concezione è uno spettacolo siglato Vucciria Teatro (in coproduzione con la Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini) che, vincitore nel 2017 della V edizione de I teatri del Sacro, nasce da un’idea di Federica Carruba Toscano e in lei trova la sua anima vitale.
Attrice dal forte temperamento espressivo, Federica regala al suo personaggio un’altra prova di rara intensità: sempre in bilico tra fascinazione inconsapevole e spontanea dolcezza puerile, i registri di questa energica interprete (basti ricordarla in lavori come Io, mai niente con nessuno avevo fatto, La distanza da qui, Battuage, Ogni volta che guardi il mare, Il corpo giusto e il più recente Certe notti) ci consegna qui l’immagine di un feticcio per metà sacro e per metà profano assurto a dispensatore di Amore ma, proprio per questo, votato al sacrificio più tragico.
Intorno a lei si muove uno stuolo di ottimi interpreti maschili – Joele Anastasi (anche autore della drammaturgia e regista), Enrico Sortino, Alessandro Lui e Ivano Picciallo – che in alcuni quadri della pièce recitano en-travesti conferendo alla pièce un sapore da cabaret grottesco: un varietà dei ‘contrasti’ dove le ascendenze popolari e dialettali di una Sicilia verghiana (penso a novelle quali La lupa o di Bozzetto Nedda) sposano quel gusto barocco per l’eccesso e lo stravagante proprio di gran parte del repertorio della compagnia (www.vucciriateatro.com).
La scena è scura. Nelle crepuscolari luci di Martin Palma, si staglia imponente una giostra/teatrino centrale che, mossa a vista e chiusa da tendaggi/sipario (la firma Giulio Villaggio), rappresenta il luogo dove la vergine/martire si concede agli uomini del paese. Lì sopra ella esercita quella ‘sessualità spirituale’ – che sia veramente un ossimoro? – grazie alla quale diventa in poco tempo la favorita della casa chiusa. Incorniciata sopra quel carillon carico di segreti, infilata in guepiere, calze e vestaglia trasparente, la giovane capra selvatica diventa Ifigenia. Diventa Sant’Agata. Diventa Santa Giovanna dei Macelli di Brecht. Simbolo sacro – e dunque etimologicamente ‘separato’ – che recita sul suo pageant medievale una Sacra Rappresentazione del tutto inedita, caricando su di sé la ‘Passione’ di un’intera comunità bisognosa di trascendenza. O, più verosimilmente, di calore umano.
Quello che la vergine Concetta offre ai suoi clienti non è sesso ma Amore, tenerezza, ascolto, compassione, ristoro ai dolori dell’anima. Qui sta la sua anomalia, la sua santità, il suo mistero. Ed è proprio questo mistero che attrae gli uomini del paese: mariti, preti, padri sui quali le carni accoglienti della ragazza agiscono da richiamo materno, ancestrale. A lei si legano in modo morboso l’arrogante Don Saro di Sortino, l’affettuoso Don Giacchino di Picciallo (uomo di Chiesa e suo padre spirituale) e soprattutto il docile Turi di Alessandro Lui (molto bravo nell’accompagnare con misura tutti gli scarti emotivi del personaggio). Sarà quest’ultimo ad amarla in modo completo e ricambiato. L’unico che la possederà sessualmente provocando un capovolgimento del destino della giovane donna: rimasta incinta, ella viene allontanata dal bordello (la sua pancia gonfia rimanda simbolicamente alle ferite personali delle altre prostitute, agli aborti subiti loro malgrado, ai lutti dentro cui esse hanno dovuto seppellire il loro sogno di maternità). Concetta non abortisce. No.
Ma viene relegata – ancora un luogo separato – lontano dalla comunità. Ogni tanto Turi va a trovarla. La bacia e l’abbraccia forte. Quando arrivano le doglie è da sola. È una ‘capra-che-fa-figli’ chiusa nella sua capanna, scossa da un dolore sconosciuto e furibondo che le permette di diventare madre e che però le toglie la vita subito dopo. L’ordine selvaggio di quel cosmo agreste si rompe irrimediabilmente poiché la scena del parto trasforma l’ingenua sensualità della protagonista in una violenta, lancinante immagine di sofferenza.
Non è un caso che la visione registica di Anastasi (ridondante di segni e codici diversi, così come la drammaturgia, forse in alcuni passaggi troppo prolissa e ripetitiva) spinga qui in modo marcato i richiami ad una brutalità animale evocata per trascinare quella società maschile verso una definitiva caduta nel ferino. Caduta nel ferino che il regista (anche eclettico interprete del padre di Concetta e della controversa Donna Anna, tenutaria del casino) disegna come regresso ad un’animalità ‘prolifica’ (gli uomini nudi sono ora capre che bevono latte) ma svuotata di ogni afflato spirituale. Concetta diventa sì Immacolata Concezione ma il mondo, senza di lei, scivola in uno stadio di primitivismo istintivo, brutale ‘perché’ privo di Amore.
In definitiva, si tratta di un lavoro importante, per molti versi erede di una solida tradizione scenica (regionalistica e non solo) che, malgrado quell’abbondanza barocca di cui ho già detto, affronta con coraggio un tema solo all’apparenza banale e scontato. Sacro o Profano che sia, è l’Amore ciò che ci rende ‘umani’. Ciò che ci fa sopravvivere. Ciò che ci muove verso gli altri e verso il domani. La santità vera ha a che fare con questo nocciolo di mistero. Con questo sentimento laico della Vita. Punto e basta. Citando Fabrizio De André: “C’è chi l’amore lo fa per noia / Chi se lo sceglie per professione / Bocca di rosa né l’uno né l’altro / Lei lo faceva per passione […]”.
IMMACOLATA CONCEZIONE
drammaturgia e regia Joele Anastasi
da un’idea di Federica Carruba Toscano
con Federica Carruba Toscano, Alessandro Lui, Enrico Sortino, Joele Anastasi, Ivano Picciallo
scene e costumi Giulio Villaggio
light designer Martin Palma
musica originale Davide Paciolla
testo musica originale Federica Carruba Toscano
contributo drammaturgico Alessandro Lui
video e graphic designer Giuseppe Cardaci
foto di Dalila Romeo
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini e Vuccirìa Teatro
Spettacolo vincitore dei Teatri del Sacro V edizione (2017)
Teatro India, Roma
19-24 febbraio 2019
Teatro Rifredi, Firenze
7-9 marzo 2019