ILENA AMBROSIO | Michele Altamura e Gabriele Paolocà, alias Vico Quarto Mazzini. Un’attività che, dal 2010, porta avanti un discorso che intreccia contemporaneità e ricerca su ruolo e modalità espressive dell’attore.
Il loro ultimo spettacolo, Vieni su Marte (qui la recensione di Renzo Francabandera), è arrivato in prima regionale in Campania per la rassegna salernitana Mutaverso, curata da Vincenzo Albano e ha, poi, fatto tappa al Teatro NEST di Napoli.
Proprio qui, nella periferia di San Giovanni a Teduccio, li abbiamo incontrati per una chiacchierata durante la quale sono emerse alcune delle specificità del loro modo di vedere e fare il teatro.
Vieni su Marte ha avuto come spunto un progetto che sarebbe eufemistico definire particolare: il Mars-One, avviato nel 2012 per creare una colonia permanente di terrestri su Marte. Un viaggio di sola andata per lo spazio. Trascendendo la specificità drammaturgia del lavoro, credete che siamo davvero al punto in cui bisognerebbe andarsene via? E per andare dove?
GP: No, ovviamente no. Però poi vedi i video delle candidature al progetto e riconosci tante tue debolezze, le motivazioni e i presupposti che spingono chiunque a lasciare il proprio posto per cercarne un altro. Quindi il fuoco che ha spinto quelle persone, sì, è condivisibile.
MA: Però non è quella la soluzione. Piuttosto bisognerebbe riprendere coscienza che questo posto appartiene a noi e che dobbiamo fare qualcosa; ciascuno nel proprio ambito, non solo in uno unico.
Per esempio, siamo in queso teatro, al NEST di Napoli, che sappiamo bene dove nasce, dove lavora e a quale pubblico si rivolge. Tutto sta nel fare o non fare. Puoi decidere – e siamo noi a deciderlo – di no, ma se invece agisci possono realizzarsi cose come questo teatro che per me sono una grande risposta.
Quello che loro fanno è davvero un’alternativa ad andarsene su Marte: i tecnici, per esempio, sono giovani ragazzi che hanno fatto un corso di formazione, ragazzi del quartiere che sarebbero andati via da qui e invece hanno trovato una loro dimensione nel luogo in cui sono.
Bisognerebbe un po’ tutti prendersi la responsabilità di questo secondo me.
Una responsabilità per la quale è imprescindibile avere coscienza e consapevolezza di ciò che ci accade intorno. Il vostro lavoro rivolge costantemente lo sguardo all’oggi. Anche nell’approccio che avete avuto nei confronti dei classici; penso ad Amleto FX e a Sei personaggi in cerca d’autore, per esempio. Non si è trattato di mere riletture sceniche ma di un vero e proprio traghettamento di personaggi e temi nell’oggi. Credete che, per chi fa teatro, questa attenzione al contemporaneo possa essere uno strumento per un agire propositivo?
GP: Premettiamo che noi viviamo di questo quindi quello che muove la nostra ricerca è sempre trovare un linguaggio che ci permetta di essere compresi.
Le nostre radici, che sono radici popolari, ci portano non a cercare i contrasto con il pubblico ma un linguaggio condivisibile. La nostra ricerca, quindi, è volta a scandagliare il bagaglio artistico che si porta dietro il teatro e cercare di condividerlo tanto con un ragazzo di ventisei anni quanto con una settantenne del XXI secolo.
MA: Il punto è anche l’urgenza che abbiamo che è quella di persone vive, che cercano materiali di riferiemento – come lo sono stati Amleto o I sei personaggi e come ce ne saranno ancora – per trovare un terreno comune di dialogo.
Cioè, io e te su cosa possiamo parlarci e capirci? Possiamo confrontarci su contenuti umani, anche su problematiche complesse, e ritrovarci?
Anche Vieni su Marte non fa altro che questo: analizza un desiderio, un bisogno, un’urgenza che appartiene a tutti, quella del sognare sempre un altrove, un posto che sia il nostro. Ma anche l’incapacità di aggiustare, l’attitudine più verso il ricominciare.
Cerchiamo degli strumenti e dei codici che sono specificamente attoriali per raccontare questa urgenza, questa umanità e trovarci con il pubblico.
Si potrebbe, allora, definire il vostro teatro politico? Non in senso tematico ma piuttosto etimologico, nel suo cercare un contatto con un’ipotetica polis, con una comunità alla quale vi rivolgete e nella quale cercate di risvegliare qualcosa?
MA: Sì, in questo è politico pur non essendolo, come dicevi, nei temi, perché per me fare spettacoli “a tema”, “a tesi” non è interessante. Scriverei un libro se volessi esprimere teorie. Su uno spettacolo teatrale si possono certamente fare dei ragionamenti, ma dopo o prima, non durante.
Mi pare di capire, quindi, che in quel durante non siete disposti a rinunciare a una dose di sano “intrattenimento” dal quale, poi, far emergere degli spunti di riflessione aperti.
MA: Ma se l‘intrattenimento mi serve ad agganciarti a ciò che sto facendo per poi farti fare una riflessione ben venga.
GP: Il problema è che, soprattutto in Italia, c’è tutta una compagine contemporanea che cerca una continua provocazione che non è teatro secondo noi. Il teatro non nasce per questo. L’arte dell’intrattenere, di scrivere una scena, di avere le tecniche del dialogo è fondamentale.
La performing art è un’arte precisa, il teatro è una cosa diversa.
Dopo che abbiamo avuto paura di dire certe parole, dopo che ‘teatro’ è stata considerata una parola così conservatrice e poco alla moda, forse bisogna ritornare a dirle le parole giuste. Non dobbiamo avere paura di dire ‘prosa’.
Questa è una cosa che rinfacciamo molto al teatro italiano. I registi italiani famosi nel mondo sono quelli che hanno fatto sempre cose strambe. Non c’è un regista italiano famoso nel mondo che faccia prosa.
Certamente c’è una tendenza generale verso un tipo di arte che, in alcuni casi, rischia di essere contemporanea unicamente per moda. Di contro un teatro di prosa spesso considerato “vintage”. Vico Quarto Mazzini dove si colloca? In quale dimensione si sviluppa il suo – diciamolo pure senza paura – teatro?
GP: Beh noi ambiremmo a essere degni successori di un Binasco, di un Castri, di un Cirillo… Certo poi si fanno nomi grossi ch ti spaventano nel momento in cui li pronunci.
MA: Sotto questo aspetto, però, in in Italia c’è un movimento al quale, di fronte alla sfida della prosa, non tremano le gambe. Quando abbiamo fatto Karamazov, abbiamo affidato la scrittura del testo a Francesco d’Amore di Maniaci d’Amore. Anche loro fanno prosa e sanno farla. E ce ne sono altri di gruppi. Punta Corsara fa prosa. Certamente non è la prosa di Squarzina, Calenda o Scaparro. è un altro genere ma sempre quello è.
GP: Il problema è che, soprattutto in Italia, si sente il bisogno di creare categorie, di fare distinzioni. A esempio, se io utilizzo le maschere in uno spettacolo, non vuol dire che faccio teatro di maschere ma che in quel momento quello è stato il codice espressivo che ho scelto.
MA: Magari al prossimo spettacolo vorremo fare un concerto. Ma se in quel momento mi serve quel codice per dare spazio alla mia urgenza emotiva devo fare quello. Quello è uno strumento, non il fine.
A settembre abbiamo realizzato un’istallazione sonora per Short Theatre, Leave the kids alone. In quel caso quello era il mezzo che ci sembrava più adatto per raccontare il testo che avevamo a disposizione. Che differenza c’è tra Vieni su Marte questa istallazione? Nessuna. L’importante è la storia che vuoi raccontare. Noi vogliamo raccontare cose che tocchino l’emotività delle persone e quindi vale tutto.
Quello che serve serve.
Per cui, se volessimo riassumere in poche battute la vostra poetica…
MA e GP: Sì dai, fallo pure per noi!
Bene, ci provo. Direi che il vostro teatro – teatro e non altro – si serve di strumenti che, di volta in volta, sono quelli necessari a tradurre sulla scena una determinata urgenza espressiva e, al contempo, a creare uno spazio mentale comune tra voi e chi vi sta di fronte, nel quale condividere un’esperienza, prima; e dei significati, poi.
GP: Sì esatto!
MA: Molto giusto.