LAURA BEVIONE | Che il calcio non sia semplicemente un gioco è forse un’ovvietà – troppi gli interessi economici a esso intrecciati –; meno noti, invece, sono i legami strettissimi intercorsi con la politica, anche internazionale. Una realtà sovente occultata da entusiasmi patriottici e bandiere colorate e, proprio per questo, se possibile ancora più subdola e meritevole di stigma universale.
Merito dunque a Giorgio Gallione, regista e autore di uno spettacolo – Tango del calcio di rigore – che illumina eventi deplorevoli di un passato piuttosto recente, testimoniando con evidenza come il gioco del calcio possa farsi terribilmente serio.
Tutto ebbe inizio il 25 giugno 1978, finale del campionato del mondo di calcio – avvenimento tuttora capace, in alcuni paesi, di fermare qualsiasi attività. In campo, all’Estadio Monumental di Buenos Aires, le nazionali di Argentina – padrona di casa – e Olanda. In tribuna d’onore, il famigerato generale Videla, da due anni alla guida di un vero e proprio regime del terrore, e, accomodato vicino a lui, un altrettanto oscuro figuro, Licio Gelli. La partita non poté che concludersi con la vittoria dell’Argentina – il cui cammino verso la finale era stato contrassegnato da brogli e intimidazioni – e il boicottaggio della cerimonia di premiazione da parte dell’Olanda.
Uno scandalo per il quale nessuno parve indignarsi e, d’altronde, malgrado le proposte di boicottare il torneo – in Olanda, Francia, Svezia – nessuna delle squadre qualificate scelse di rimanere a casa. E, dunque, il campionato si disputò, mentre a pochi metri dalla stadio di Buenos Aires gli oppositori al regime continuavano a venire torturati. Soltanto gli spaventosi “voli della morte” vennero interrotti per poi riprendere regolarmente allorché le telecamere delle tv internazionali spostarono il proprio obiettivo e, allora, poterono ritornare a Plaza de Mayo anche le indefesse madri in cerca di un’impossibile giustizia per i propri figli desaparecidos.
Lo spettacolo di Gallione racconta quel tragico campionato attraverso gli occhi di un uomo allora bambino e che, ora, decide di intraprendere un proprio personalissimo viaggio purificatore nella storia del calcio, rintracciandone le – troppe – commistioni con la politica e pure con la malavita – e tentando di riscoprirne l’originaria e spensierata autenticità.
Un cammino che non segue né la cronologia né la geografia bensì uno stato d’animo affatto individuale, in cui l’indignazione è momentaneamente sconfitta dal sorriso, a sua volta spento dall’orrore.
Accostando eventi frutto di una concretissima fantasia così come fatti della cronaca internazionale rievocati da un forzato oblio – tratti anche da La prima guerra del football di Ryszard Kapuściński e da Pensare con i piedi di Osvaldo Soriano – il protagonista – incarnato da Neri Marcorè – tenta di riacquistare l’entusiasmo per quella che fu una passione da lui giudicata innocua e neutra.
Ma non c’è innocenza nella vera e propria guerra combattuta a suon di gol fra Salvador e Honduras e animata dalle compagnie bananiere a loro volta sobillate dalla CIA. Né adesione al motto decoubertiano «l’importante è partecipare» nell’iscrizione al campionato nazionale colombiano da parte della squadra finanziata dal cartello di Medellin… E c’è la necessità di cedere a compromessi con i quali poi sarà complicato convivere, come avviene per il giocatore del Cile costretto dal regime di Pinochet a tirare un rigore in una porta vuota.
Nello spettacolo sono, poi, rievocate altre vicende a loro modo esemplari: il leggendario campionato del mondo disputato nel 1942, nel corso della Seconda guerra mondiale, in Patagonia, arbitrato dal figlio di Butch Cassidy e contrassegnato da infiniti e improbabili tentativi di sabotaggio reciproco fra le varie squadre; o, ancora, la sofferenza del portiere dell’Estrella Polar, protagonista suo malgrado del rigore più lungo della storia…
Episodi – realmente accaduti ovvero frutto di quel realismo magico che della verità offre un credibilissimo ed eloquente specchio – che, nella loro policromicità, dettano la varietà di tonalità che contraddistingue uno spettacolo che mescola musica – gli interpreti cantano e suonano – e recitazione, tragedia e surreale comicità, immedesimazione e pur empatico distacco.
Ci sono le maschere e le parrucche, travestimenti buffi e costumi da cactus ma, soprattutto, c’è la volontà di offrirsi con generosa sincerità agli spettatori, intesa quale unico mezzo per spogliare della propaganda, delle strategie diplomatiche, della brama di potere la storia di uno sport e per restituirlo alla sua autentica natura.
Obiettivo da raggiungere anche ricorrendo a uno scenografia apparentemente essenziale eppure assai pregnante: tavoli e sedie da bar variamente movimentate, sottili tronchi di bambù neri che imprigionano e soffocano, assi orizzontali di lampadine e anche fili composti anch’essi da semplici lampadine strettamente aggrovigliati; i ritratti in bianco e nero dei giovani desaparecidos… E quei fondali scrostati con esiziali macchie nere che evocano lugubri spettri e antri oscuri del cuore umano.
Gallione e i suoi cinque duttili e instancabili interpreti – ciascuno impegnato in più ruoli – commuovono e, soprattutto, fanno riflettere e siamo certi che, dopo aver assistito a questo spettacolo, ciascun spettatore guarderà al calcio con maggiore e critica consapevolezza e, magari, oserà pretendere che si torni, semplicemente, a giocare…
TANGO DEL CALCIO DI RIGORE
drammaturgia e regia Giorgio Gallione
scene e costumi Guido Fiorato
luci Aldo Mantovani
musiche originali Paolo Silvestri
con Neri Marcorè, Ugo Dighero, Rosanna Naddeo, Fabrizio Costella, Alessandro Pizzuto
produzione Teatro Nazionale di Genova
Teatro Gustavo Modena, Genova
24 febbraio 2019
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