ILENA AMBROSIO | «Salve, non ci siamo ancora presentati siamo l’Opera Nazionale Combattenti e abbiamo occupato questo teatro […] L’opera nazionale combattenti vi prende in ostaggio.» Gli attori srotolano un filo spianato sul proscenio e circondano la platea con un cordone sanitario. Bene, siamo davvero in ostaggio!
Esordisce così L’Opera Nazionale Combattenti presenta I Giganti della montagna atto III di Principio Attivo Teatro – che abbiamo visto, a Salerno, nell’ambito della rassegna Mutaverso curata da Vincenzo Albano.
Cinque individui in abiti da viaggio anni ’30, valigie in mano e cartellini con la sigla ONC, si presentano, sul proscenio, a sipario chiuso, come difensori del «teatro vecchio e dell’arte vecchia» contro il «teatro giovane e contemporaneo».
In realtà, dobbiamo precisarlo, l’esordio non è proprio questo. La compagnia, prima, è arrivata in scena in processione, dalla platea, portando in spalla il corpo di una delle due donne. Prima ancora abbiamo sentito, fuori campo, le annotazioni dettate da Pirandello al figlio Stefano sull’atto finale della sua opera.
Assistendo a questo “prologo” hanno da subito iniziato a comporsi, nella nostra mente, le parti di un oggetto, la cui immagine ci pare corrispettivo oggettivo dell’intero impianto scenico-drammaturgico e del suo stesso senso: una matrioska.
Ovvio, il meta-teatro di Pirandello lo è già di per sé. Ma il testo scritto da Valentina Diana e messo in scena da Giuseppe Semeraro amplifica con evidenza quel meccanismo a incastro.
C’è la Compagnia della contessa Ilse e c’è la Favola del figlio scambiato da mettere in scena, i due livelli narrativi già intrecciati. A questi si aggiunge quello della Compagnia ONC che, a sua vola, recita quei due livelli; ma, a monte, anche quello degli attori stessi, quello della “realtà”, insomma. Ci sono, poi, i piani del pubblico: noi in quanto spettatori reali ma anche involontari attori, interpretanti quelli presi in ostaggio dai combattenti, e il pubblico «di là», immaginato da Pirandello stesso dietro un telo in fondo alla scena, il popolo basso e volgare che sgranocchia noccioline e dovrebbe assistere alla pièce della Contessa.
Si alza il sipario e i combattenti iniziano ad allestire la scena – il telo bianco sul fondo, delle sedie, una toletta, uno stand porta abiti – e cambiarsi d’abito mentre un sesto personaggio – Leone Marco Bartolo – prende il centro del palco cantando una canzone. È il tecnico e musicista dell’ONC – e in effetti le musiche le cura davvero –, un giovane, in jeans, chiodo su torso nudo, bandana che, alla fine dell’esibizione, si scatta un selfie con il pubblico. La sua presenza è come promemoria dell’intreccio tra piani narrativi e, anche, tra piani cronologici data la sua evidente modernità rispetto ai Combattenti.
Ciò che questi interpretano, dunque, è il momento in cui la compagnia della Contessa si prepara alla messa in scena. La fedeltà alle annotazioni di Pirandello è assoluta ma, a quello scheletro si aggiungono organi pulsanti di originalissima sapienza drammaturgica e scenica che portano agli esiti estremi la riflessione sul teatro e sull’arte che è I Giganti della montagna.
L’incontro/scontro tra realtà e finzione è vissuto ed esibito dagli interpreti che si spostano costantemente di livello e, in alcuni frangenti, fisicamente, dalla scena alla platea. «Sì, ma non capisco cosa devo recitare, devo recitare io che recito, o devo recitare di recitare io che recito?».
Si tematizzano – come già in Pirandello – le difficoltà del fare teatro: qualcosa cade dal soffitto di uno spazio evidentemente in decadenza, il coro delle donne non c’è perché non hanno ricevuto la paga; gli oggetti di scena devono essere comparti a buon prezzo al mercato.
«Volevamo trovare un testo che ci permettesse di parlare di teatro e di tutte le difficoltà delle compagnie, dei teatranti, della vita di chi fa questo mestiere… Del teatro in generale», ci ha raccontato Giuseppe Sameraro.
Questa meta-riflessione dà luogo a frangenti di forte carica drammatica ma, anche, di estrema ilarità, affidati, in particolare, all’ironia sempre ficcante di Dario Cadei/Cromo e agli scontri tra le due donne – esilaranti Silvia Lodi e Cristina Mileti – il cui astio si traduce in vere e proprie liti isteriche difficilmente tenute a bada dal Conte (ma anche il “numero di magia” di Otto Marco Mercante non è da meno).
Non la semplice ricostruzione di un atto finale incompleto, dunque, ma una struttura drammaturgica originale, razionalmente pensata e realizzata.
Tutta testa allora? No, per niente. Anche tanto cuore, urgenza di dire, di spiegare, tramite il teatro stesso, cosa sia il teatro e cosa diventi chi lo sceglie come proprio habitat di vita.
Quella compagnia stramba di disadattati, dal nome un po’ retrò, la sua anacronistica missione sono, allora, ironica maschera di una strenua lotta per difendere il vero teatro da quello che rischia di diventare – rischio già paventato da Pirandello –, soggetto com’è alle leggi del danaro, alla mercificazione. La presa in ostaggio, diventa, ancora, il suo rovescio: un abbraccio – seppur coatto – del pubblico, inglobato nel processo di creazione e messa in scena che, in definitiva, non avrebbero ragion d’esistere se esso non fosse presente.
A quel pubblico si chiede di credere, anche se si sa che è finzione, anche se lo si capisce:
Comunque quelli di là non ci sono. Ci siete solo voi. Stiamo facendo tutta questa messa inscena per farvi credere che di là ci sia un altro pubblico, ma è difficilissimo. Praticamente impossibile.
Al giorno d’oggi la gente non crede più le cose che credeva una volta. Una volta il pubblico se gli dicevi “Questo è un albero” ci credeva […]
Adesso il pubblico non crede più a niente. Finge di credere, per fare un favore a noi, per non umiliarci. […]
Però adesso, dato che la storia lo richiede, abbiate pazienza e continuiamo a fare finta che il pubblico ci sia […] Facciamo finta.
Noi facciamo finta di qua, e voi fate finta di là.
A riassumere il nocciolo semantico – con un umorismo che un po’ commuove– è chi non ci aspetteremmo, il giovane tecnico, in un’ode al principio della sospensione dell’incredulità che, solo, può salvare l’arte, lasciando intatto il patto di reciproca fiducia tra attori e pubblico.
Un’arte che, però, qui si salva davvero. Il finale immaginato da Pirandello viene rovesciato e la Contessa, di fronte al pubblico rabbioso di rozzi urlanti, non soccombe, è lei stessa a sparare. «Volevamo far capire che l’arte non può sempre subire, che può ribellarsi, perfino diventare pericolosa», ci dice ancora Semeraro.
Dopo lo sparo, rientra in scena, la sua Compagnia ridiventa l’ONC e di nuovo, in processione, esce dalla platea.
Sul palco, però, accade qualcos’altro, qualcosa che non vi diremo perché è un coup de theatre che non va rovinato.
Ma vi diremo cosa resta: un amore profondo per la scena, per le sue dinamiche; per il teatro che, se glielo permettiamo, può ancora dire qualcosa, anche “solo” farci sorridere o piangere. Resta, insomma, quel vento – piccolo spoiler – di passione grande per il mestiere teatrale che soffia in tutto il corpus pirandelliano e che questo lavoro ha accolto e messo in circolo con energia.
«Siamo sogni che nessuno sogna più», dice con amarezza la Contessa. Il rischio di chi fa teatro: cadere nell’oblio di un mondo che non ha più immaginazione.
Noi, allora, continuiamo a sognare e credere, anche solo per finta.
Per salvare il teatro.
Per salvare la bellezza.
OPERA NAZIONALE COMBATTENTI presenta
I GIGANTI DELLA MONTAGNA ATTO III
Principio Attivo Teatro
drammaturgia Valentina Diana
bande sonore e musiche Leone Marco Bartolo
con Leone Marco Bartolo, Dario Cadei, Silvia Lodi, Otto Marco Mercante, Cristina Mileti, Giuseppe Semeraro
regia Giuseppe Semeraro