ANGELA FORTI | Roma, non può essere altri che lei. I pannelli dipinti e in forma di schizzo di Fabiana Di Marco ce ne danno subito una visione sintetica, giustapponendone i luoghi principali. È la Roma papalina della notte, del fiume e dei gatti. La Roma degli amori rubati, leggeri, birbanti come quello tra il burattinaio Gaetanaccio e l’attrice Nina. Su tutto ciò regna maestoso er cupolone, il mistico luogo di provenienza delle bolle papali che impediscono, nel perimetro della città, ogni tipo di rappresentazione: tutte quelle attività che, nel migliore dei casi, “non servono a gnente”. Ridotti alla fame, la maggior parte dei guitti lascia la città. Non fa lo stesso Gaetanaccio che, convincendo la fidanzata, decide di rimanere e sfidare il Potere con l’arte della baracca.

Gaetano Santangelo, in arte Gaetanaccio, fu burattinaio a Roma a cavallo tra Settecento e Ottocento, creatore, tra l’altro, della tipica maschera del Rugantino. Luigi Magni lo rese protagonista ne La Commedia di Gaetanaccio in scena al Brancaccio nel 1978, con Gigi Proietti regista e protagonista insieme agli allievi del Laboratorio di Esercitazioni Sceniche inaugurato lo stesso anno. A distanza di quarant’anni Giancarlo Fares porta al Teatro Eliseo (in scena fino al 10 marzo) il remake di quello che ormai risiede, a voce unanime, sotto la categoria di capolavoro: in scena Giorgio Tirabassi nei panni di Gaetanaccio, Carlotta Proietti in quelli di Nina.

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Sotto mentite spoglie i personaggi della baracca abitano il mondo del protagonista: Pulcinella (o meglio il figlio Fiorillo, interpretato da Carlo Ragone), la Morte (Elisabetta De Vito), Arlecchini, Gendarmi e Cardinali senza maschera, tutti in una giostra di incontri gravitano intorno alla figura magnetica del burattinaio testardo e irriverente, di un personaggio fondato sulla propria individualità e sull’egoismo, non certo sulla difesa eroica del mestiere dell’arte.

Nonostante le intenzioni rivoluzionare, però, a farsi sentire per primi sono i morsi della fame, il motivo per cui Gaetanaccio accetta di esibirsi in Vaticano per rallegrare il Papa in persona in cambio di una luculliana cena. Per questo motivo Nina, costretta a rimanere affamata a casa, si sente tradita e accetta per dispetto l’invito a cena di un cardinale che, precedentemente rifiutato, decide di vendicarsi pugnalando la ragazza e gettandola nel Tevere. La sfida finale per Gaetanaccio sarà proprio quella contro la Morte.

Il tono del protagonista è sempre irriverente: non solo nei confronti del pubblico e della critica, ma del teatro contemporaneo stesso e della sua cripticità: «Ve faccio il teatro totale che il critico nun ve basta… ve serve l’astrologo!». La sua satira è sferzante anche nei confronti della propria classe sociale: «Ora potete dirvi vittime della repressione e non del pubblico», dice Gaetanaccio ai guitti che, in carovana, si apprestano a lasciare la città.

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La regia di Fares opta per una sostanziale staticità: l’azione si sviluppa in una sequenza di quadri di pochi personaggi per volta e la presenza scenica degli attori, per quanto puntuale e curata, non riesce a sostenere il peso del palco vuoto, abitato di tanto in tanto dalle sagome in controluce dei musicisti sul fondo.
Pochi i cambi scenici: la maggior parte delle azioni si svolge sul proscenio, in dialogo diretto con il pubblico. Soltanto per gli interni è sfruttata la parte posteriore del palco, allontanata visivamente da un velatino. I burattini di Santuzza Calì hanno testa e gambe di stoffa – scelta inusuale che fa pensare all’adattamento di marionette – ma solo saltuariamente compaiono in scena, sempre disabitati dalle mani del burattinaio. Anche gli oggetti di scena vengono sostituiti da sagome di cartone dipinte, mentre spicca la pomposità farsesca dei costumi che, se da una parte ci suggerisce un’ambientazione da Commedia dell’Arte, dall’altra contribuisce a sottrarre lo spettacolo dall’ambito della rappresentazione storica.

Le canzoni, infine: la commedia di Luigi Magni è strutturata su una serie di brani in romanesco, originariamente composti da Pietro Pintucci con lo stesso Proietti (raccolte poi in un album omonimo). Nel nuovo arrangiamento di Massimo Fedeli sembrano perdere il tono ironicamente stridulo e la notevole vena politica (si vedano, ad esempio, Scusate la domanda Santità o Eccellenza so’ innocente); satirizzanti anche nei confronti della tradizione musicale locale e degli strascichi di bel canto della seconda metà del Novecento, esse risultano tecnicamente complesse, perfette per la mimica e l’espressività di Gigi Proietti ma anche di attori come la superba Daria Nicolodi (allora nel ruolo della Morte).

In Italia siamo, del resto, in un periodo di temi ricorrenti e di grande sperimentazione stilistica anche nel campo del così detto “mainstream”: nel 1977 esce Burattino senza fili di Edoardo Bennato; il ’78 è l’anno dell’album Cappelle del gruppo Squallor, mentre nel 1980 uscirà la prima regia di Renzo Arbore, Il Pap’occhio. Sono gli anni degli album politici di Enzo Jannacci, Dario Fo e Giorgio Gaber.
Private della loro personalità, le canzoni si riducono a una serie di numeri da opera lirica intonati ben al centro del palco, petto in fuori e mento alto, romantico cimelio di una Roma stereotipicamente folklorizzata.

Fa piacere, ogni tanto, andare al Teatro Eliseo. Sono occasioni molto rare di trovarsi in una platea grande e, nonostante questo, ben nutrita anche di martedì, attenta ed esigente. Il pubblico è sincero e schietto: commenti, applausi a scena aperta; tra le poltrone rosse se ne sentono di tutti i colori. È un pubblico che, nonostante ciò che possiamo raccontarci, a teatro ci va davvero da un sacco di tempo, in un’occasione che è ancora festa, per intrattenersi e per tirare fuori il vestito buono. Per questo vanno lì, all’Eliseo, con la sua scritta luminosa, radiosa in via Nazionale. Forse per questo vanno lì, e non in qualche scantinato adibito a teatro, in vicoli bui e difficili da raggiungere, in vecchie fabbriche disperse nei deserti industriali della città, là dove si dice pulluli il futuro.

Gigi Proietti e Luisa De Santis in La Commedia di Gaetanaccio, Teatro Brancaccio 1978
Gigi Proietti e Luisa De Santis in La Commedia di Gaetanaccio, Teatro Brancaccio 1978

Quello di Luigi Magni e Gigi Proietti è un teatro che parla di sé per parlare del fuori: un metateatro metasociale, che non smette mai, purtroppo, di essere attuale. Ci si chiede il senso di riportare un’opera di questo genere in un teatro come questo, estremamente distante da ciò che doveva essere il Brancaccio, “Il Teatro di Roma”, del 1978.  Ci si chiede dove vada a finire la critica alla contemporaneità del teatro, qui dove il teatro contemporaneo ha disertato da tempo, in una platea scevra di mestieranti, dove il tanto inveito critico non gode più di alcuna ragione sociale; in queste poltrone scaldate dalle abitudini della gente per bene, non certo da morti di fame e ciarlatani – gli attori, si intende. Ci chiediamo dove siamo finiti noi, di fronte a questo pubblico che ci ostiniamo a ignorare, l’unico che ancora ha la costanza di pagare un biglietto e di cercare un po’ di bellezza, in queste sale che continuiamo a disertare.
Una piacevole commedia musicale quella di Giancarlo Fares – uno “spettacolo garbato”, come ho sentito definirlo alle mie spalle – tuttavia lontano dall’irriverenza che il testo vorrebbe perseguire. «Tanto non è che fuori di qua, con l’aria che tira, ve sareste divertiti di più». Purtroppo, c’è poco da contraddire.

 

LA COMMEDIA DI GAETANACCIO
di Luigi Magni

regia Giancarlo Fares
con Giorgio Tirabassi, Carlotta Proietti, Carlo Ragone, Elisabetta De Vito, Daniele Parisi, Marco Blanchi, Enrico Ottaviano, Matteo Milani, Pietro Rebora, Martin Loberto, Viviana Simone
musicisti Massimo Fedeli, Diego Bettazzi, Stefano Ratchev, Claudio Scimia, Alessandro Vece
musiche Gigi Proietti, Piero Pintucci, Luigi Magni
costumi e burattini Santuzza Calì
scene Fabiana di Marco
luci Umile Vainieri
suono Manuel Terralavoro
arrangiamenti, direzione musicale e vocal coach Massimo Fedeli
coreografia Ilaria Amaldi
produzione Teatro Eliseo

Teatro Eliseo, Roma
26 febbraio 2019