RENZO FRANCABANDERA | C’è una “sturielletta” che ho spesso raccontato ai miei amici, a proposito del tema che ci andrà a occupare in questa riflessione. Non ero ancora maggiorenne e collaboravo per Cuore, un giornale che ha fatto la storia della satira italiana e nel quale, per avventura, mi trovai a scrivere qualche contributo e a dare una mano al fianco di una generazione incredibile di grandi e piccoli creativi, da Vincino a Mannelli, all’ultimo Pazienza, Gipi, Beppe Mora. E proprio questi ultimi due, insieme a Roberto Marcanti, durante uno dei raduni estivi alla festa del giornale a Montecchio, vicino Reggio Emilia, mi misero, io ragazzino, “in mezzo al gioco”, facendomi credere, durante un aperitivo lì ai tavolini infestati di zanzare, che Gianni Gipi sapesse parlare dicendo le parole all’incontrario. Me la tirarono con qualche ridicolo esempio per un quarto d’ora finché il mio orgoglioso Sherlock Holmes non sentì il bisogno di scoprire la verità. E chiedendogli di dire al contrario una parola complicata che mi ero scritto su un foglietto, scoprii ovviamente l’inganno. Ricordo ancora quello che mi disse Gianni Gipi quasi trent’anni fa: “Stasera potevi andartene a dormire in tenda felice di avere per amico un genio che parla al contrario, e invece ci andrai consapevole di esser stato raggirato da tre come noi”.
Ho pensato spesso a quell’episodio e l’ho rivissuto integralmente dopo la visione di True Copy a Modena. Il foglio di sala si conclude infatti con la fatidica domanda, bella ora come allora: “E non è molto più soddisfacente dire di sì a una menzogna brillantemente confezionata?”
In fondo l’Arte non è tutto un inganno?
Ci sono spettacoli che di colpo, attraverso dispositivi scenici e drammaturgici non complessi ma accurati, riescono a disvelare un universo violentissimo di pensieri sull’arte.
True Copy con Geert Jan Jansen, ideato e diretto da BERLIN [Bart Baele & Yves Degryse] rientra in quella categoria di visioni che immediatamente, già durante lo spettacolo stesso, inizia a far pensare a cose sul teatro, sulla società, sull’arte, per cui appena usciti di sala si vorrebbe iniziare a scrivere e a dirlo un po’ a tutti. Non perché succeda qualcosa di eclatante o estatico, ma semplicemente perché di colpo le questioni vengono svelate con estrema chiarezza e purezza di svolgimento. Penso a molta della saggistica che è possibile trovare in commercio a riguardo di fenomeni socio-antropologici. In fondo molti dei best seller non dicono nulla di nuovo, ma lo dicono bene, con le parole giuste per l’oggi in cui vengono letti.
A proposito, ad esempio, dell’aura nell’opera d’arte originale, degli inganni del sistema dell’arte e di quante poche domande ci poniamo per verificare quanto le cose che abbiamo sotto gli occhi siano vere o false, ci sono scritti che risalgono all’età classica (qui una godibile paginetta di Tarski, che rimanda ad Aristotele, fra antico e moderno). E le prime domande dei primi filosofi si sono rivolte a questo. Per non parlare dell’immortale Benjamin e del suo saggio.
Ciò non di meno, True Copy, presentato all’interno del notevolissimo programma di VIE Festival in corso in questi giorni in Emilia-Romagna, a cura di Emilia-Romagna Teatro Fondazione (ERT), rientra davvero in qualche modo nel novero degli spettacoli imperdibili a mio avviso, proprio per chi voglia interessarsi a questo genere di tematiche, ma anche solo a cosa sia lo specifico del teatro nelle sue declinazioni più contemporanee. Questa cosa è strettamente connessa, a ben pensare, al modus operandi della compagnia. Fin dal 2003, i registi fondatori di Berlin decisero di non scegliere un genere in particolare, ma di avventurarsi nel regno del documentario e lasciare che fossero i luoghi delle incursioni a guidare la loro ispirazione. Questa filosofia ha dato vita a due cicli progettuali: Holocene (l’attuale era geologica) dove il punto di partenza è sempre una città o un altro luogo del pianeta, e Horror Vacui (paura del vuoto) nel quale storie vere e toccanti vengono delicatamente districate attorno a una tavola. Il ciclo Holocene comprende Jerusalem, Iqaluit, Bonanza, Moscow e Zvizdal. Gli episodi di Horror Vacui sono invece Tagfish, Land’s end, Perhaps All the Dragons e Remember the Dragons.
La compagnia ha lavorato in 27 paesi diversi negli ultimi anni, all’interno di vari circuiti: dai teatri agli spazi espositivi, dai festival alle location speciali e Perhaps All The Dragons è stato uno dei loro successi più significativi. Si tratta di una creazione in cui una trentina di spettatori fruiscono, davanti a una serie di schermi, il racconto di altrettante improbabili ma vere vicende biografiche, che alla fine dello spettacolo trovano modo di intrecciarsi fra loro e creare un filo rosso sul senso del vivere nel presente.
Fra queste vite viene raccontata quella di Geert Jan Jansen, uno dei maggiori falsari d’arte, se non il maggiore, del secolo scorso (e forse anche di questo). A suo carico indagini e processi internazionali, dopo che in modo rocambolesco fu scoperta la sua colossale produzione di falsi d’arte dovuti alla grandissima maestria tecnica e verrebbe da dire capacità spirituale di inserirsi fra la tecnica dei grandi maestri della pittura di sempre e un mercato dell’arte avido di creazioni, con affaristi senza scrupoli pronti a speculare in modo colossale su un giro d’affari generato fra il 20 e il 40 per cento da opere false.
True Copy porta in scena la vita di Geert Jan, che è lì, davanti a tutti, a farsi intervistare in una performance un po’ spontanea e un po’ registrata, che racconta la sua vita vissuta in costante equilibrio tra finzione e realtà e nella perenne speranza di non essere scoperto e di non cadere dal filo teso fra questi due poli: una profonda riflessione sul senso dell’arte, su cosa sia l’arte e il suo rapporto identitario con quanto percepiamo.
Il 6 maggio 1994 i gendarmi irruppero nella tenuta in campagna di Geert Jan Jansen, dove trovano oltre 1600 opere di artisti del calibro di Picasso, Dalì, Appel, Matisse e Hockney. Dettagli sorprendenti: la maggior parte di questi sono stati dipinti dallo stesso olandese. Per oltre vent’anni, Geert è riuscito a ingannare il mondo dell’arte, in modo così convincente che anche Picasso e Appel hanno involontariamente fornito certificati di autenticità per le sue creazioni. La scoperta dell’attività del falsario peraltro non fu dovuta al riconoscimento di una sua opera, ma a un banalissimo errore grammaticale in uno dei suoi falsi certificati di autenticità – episodio narrato durante lo spettacolo, ovviamente – scoperto da una solerte e giovane ricercatrice.
Lui (?) racconta la sua storia, durante lo spettacolo va dietro la parete di grandi video che creano lo spazio dell’intervista e del racconto autobiografico: un retrobottega dove viene filmato il suo realizzare lì per lì non copie, ma falsi, opere verosimili nello stile di Matisse o Picasso. E mentre li realizza ci dice: un falso inizia sempre con la firma dell’artista che si sta falsificando. Perché se realizzi un capolavoro e poi dopo sbagli la firma è un dramma. Mentre col procedimento al contrario tutto funziona.
Fino a oggi, i musei di tutto il mondo hanno esposto quattro opere di Geert Jan che nessuno identificherebbe come falsi. Quest’uomo è stato in bilico dentro un sistema di bugie – o piuttosto dentro quelle che la società ha poi finito per accettare come piacevoli variazioni della verità.
Ma la cosa più straordinaria che lo spettacolo riproduce è la piccola società degli orrori rispetto all’arte, con l’artista impegnato a realizzare falsi sotto gli occhi degli spettatori e a far partire aste per metterli in vendita (ricavato in beneficienza, e quadro venduto – un falso Picasso – per quasi 3000 euro durante la nostra replica). Ma soprattutto alla fine dell’allestimento, quando tutto si disvela, quando le quinte e la scenografia si aprono sul nulla, facendo sparire molta della impalcatura che la fantasia dell’arte e le moderne tecnologie avevano creato, lo spettatore si trova davanti al “dilemma di Gipi”. Era meglio tornare a casa con la consapevolezza di aver assistito al racconto di un genio truffatore, o invece doversene uscire di sala con l’amaro in bocca che la spoetizzante verità, la sua crudezza, porta con sé?
Il pubblico applaude comunque e a lungo, trascinato dentro un dispositivo che ha la bellezza dell’autobiografismo e la magia del teatro: non del vero, dunque, ma del verosimile. Come l’arte deve essere e come ripete diverse volte il protagonista della vicenda: non è importante se un’opera è vera o falsa, conta la qualità.
E True Copy è costruito con una qualità maniacale, che rende la fruizione e la vicenda magnetica, tanto quanto il finale, spoglio, duro e filosofico.
Potentissimo.
TRUE COPY
ideazione e direzione BERLIN [Bart Baele & Yves Degryse]
con Geert Jan Jansen
assistente di Geert Jan Luk Sponselee
video BERLIN, Geert De Vleesschauwer, Jessica Ridderhof & Dirk Bosmans
video editing BERLIN, Geert De Vleesschauwer & Fien Leysen
scene Manu Siebens, Ina Peeters & BERLIN,
composizione musicale & mixing Peter Van Laerhoven
missaggio dal vivo Arnold Bastiaanse o Hans De Prins
disegno luci Barbara De Wit
pianoforte Govaart Haché
violoncello Katelijn Van Kerckhoven
registrazione del suono Bas De Caluwé & Maarten Moesen
coordinamento tecnico Manu Siebens & Geert De Vleesschauwer
assistenza tecnica Rex Tee
amministratore di produzione Celeste Driesen & Jessica Ridderhof
amministrazione Jane Seynaeve
distribuzione Eveline Martens
comunicazione Sam Loncke
produzione BERLIN
coproduzione Brighton Festival (UK), le CENTQUATRE (Paris, FR), C-TAKT (Limburg, BE), deSingel (Antwerp, BE), Theaterfestival Boulevard (Den Bosch, NL), Het Zuidelijk Toneel (Tilburg, NL), PACT Zollverein (Essen, DE)
con il supporto di the Flemish Government, Tax Shelter of the Belgian federal government, Podiumfonds
grazie a Diana Boro, Geert Jan Jansen per il suo aiuto nella preparazione e nella realizzazione dello spettacolo