MATILDE PULEO | Ci sono pensieri di artisti che rimangono dentro, sopiti, fino a quando non si riaccendono tra le parole, le scelte o la passione di altri. Quando succede ti metti in dialogo con quelle frasi e magari, inventando uno scenario utopico, crei un dialogo tra due persone che non si sono mai potute conoscere di persona. In questo modo, passato e presente diventano un tutt’uno.

Anche perché, a più di trent’anni dalla morte, le parole più infuocate di Joseph Beuys non si trovano nelle sale dei musei.  I pensieri sono difficili da museificare. La sua frase relativa a un’arte da intendere come totalmente aderente alla vita nella quale ciascuno metta in gioco la propria creatività, ad esempio, viene ripetuta ovunque, ma non basta. Quella nella quale si legge che «l’arte è uguale a capitale», ha bisogno di molte altre parole per descrivere il significato positivo assegnatole dall’artista tedesco.

Immagine di una risorsa del sociale, l’arte è, nell’idea dell’artista, lo strumento tramite il quale tutti apportiamo qualcosa a un tutto più grande. Questo status di mutualità, di economia collaborativa o di open cooperativism era, a suo avviso, da paragonare al sangue che circola nel corpo, o da abbinare all’immagine dell’originaria cooperazione esistente in Natura.

Joseph-Beuys-das-ende, Museo Hamburger-Bahnhof

Chiaramente andrebbe notato nelle sue parole sulla natura, il tentativo di scuotere un’attenzione già all’epoca poco sensibile alle indicazioni urgenti sulla questione ambientale espresse, ad esempio, dalla Conferenza di Stoccolma (1972): la necessità di affermare che la Natura non vive della logica della sopraffazione. Nelle interviste parlava della generosità del creato mossa dalla spinta alla cooperazione. Contro la presunzione di sapere, lui si era imposto di non usare il verbo lottare per la Natura: uno dei suoi ultimi happening portava non a caso come titolo Difesa della Natura. Tutelarla e cercare di custodirla erano i suoi imperativi, e per farlo invitava tutti a ricordare che l’uomo, di quella Natura, è parte integrante, e non giudice o amministratore.  In questo modo la foresta diventa polmone e l’animale parte del tessuto di questo tutto che è il pianeta Terra.

Tuttavia nei musei che ospitano le sue opere, resta il concettuale del suo passaggio. L’opera al museo non riscalda quanto la sua battaglia.

Alla fine si registra, piuttosto, che ciò che abbiamo realmente rispettato del pensiero dell’artista pensatore è forse la meccanica dell’induzione del desiderio: mezzi di trasporto, elettrodomestici e abitudini alimentari che si basano sui principi di un’economia che sfrutta e stanca il pianeta sono diventate davvero il filo conduttore del nostro agire. Questa cultura, che anche Beuys avrebbe visto come intimamente legata all’imperialismo, è sorda, per esempio, al tema dei cambiamenti climatici e, per quanto la questione sia o sia stata presente nell’agenda di molti progetti artistici, non si può dire di aver assistito, in questi anni dopo la sua morte, a fenomeni mediatici rilevanti o a interventi artistici determinanti. Qualsiasi ipotesi artistica o progetto internazionale sensibile all’ambiente invece, dovrebbe prima fare i conti con gli stili di vita e col modo di renderci complici dell’attuale situazione. Il problema, la ferita da sanare per prima, è la freddezza delle relazioni nella quale siamo immersi.

Joseph Beuys, Unschlitt Tallow,
1977 Staatliche Museen di Berlino

Nelle sale dei musei che ospitano le opere di Beuys si avverte un’atmosfera rarefatta, dicevamo. Non perché l’artista non c’è più, ma perché, guardando ciò che materialmente resta della sua opera, la società intera in cui quelle opere sono state pensate e che ora le espone, sembra chiusa e indifferente al messaggio, in qualche modo infeltrita. A mio avviso, questo ha certamente a che fare con l’impegno umano e spirituale di un artista difficile da catalogare.

La sola opzione che abbiamo è allora quella di concepire, piuttosto, un museo mentale, nel quale collocare le sue parole e le sue battaglie, oltre che le sue lavagne. Un museo del genere realizzerebbe, poi, un’altra grande lezione: quella della Scultura sociale nella quale l’uomo finalmente usa la mente, per modellare azioni quotidiane.
Costruire un museo nella nostra mente significa trasformare ognuno di noi in creazione artistica e questo era ciò che Beuys si augurava. È nella mente che l’uomo plasma la sua anima. Pertanto, questo mio tornare a lui e scriverne mi trasforma in “conservatrice museale” permettendo a me e al lettore di rispettare il mandato di rendersi conto che le azioni possono diventare fondamentali per la sorte del pianeta. Prima fra tutte quella di prendersi a cuore, di scaldarsi per un’idea, di infuocare le nostre parole. Tutte quelle azioni cioè, che riguardano il fare in modo di sentire calore per la vita.  A questo punto le lavagne e i panetti di burro steso sulle sedie o in parallelepipedi sul pavimento dei musei tornano ad avere il senso col quale le aveva create l’artista.

Joseph Beuys, information action 1974

Ma cos’è l’economia per un mistico?

Beuys si sa, passa alla storia come artista filosofo che pensa criticamente il rapporto tra pratiche artistiche e ecologia-politica.  Di lui si è scritto molto. A me resta l’immagine dell’uomo con schiere di proseliti. Artista e uomo politico, pronto alla protesta collettiva. Propugnava la necessità di ricreare non il linguaggio artistico ma il senso dell’arte in relazione alla fruizione sociale, con una proposta politica da sperimentare nella sfera delle relazioni. Se potesse parlarci, quindi, mi auguro che ci direbbe che ancora oggi, rispetto a quanto Marx aveva previsto, è necessaria una nuova critica, che porti a nuove forme di lotta, di organizzazione, di propaganda e di stili di vita. Per cominciare, l’artista del futuro sarà chiamato a riflettere sull’arte come fenomeno non estraneo alla società, all’economia e alla politica. A pensare che la sua azione non è astratta né tantomeno disgiunta dai saperi delle classi dominanti che hanno contribuito all’attuale configurazione del capitalismo come regime ecologico. Sotto questo aspetto è davvero grande il lavoro da fare.

La crisi e la difficoltà di assegnare un solo significato alla parola ‘natura’ nella nostra fase più avanzata di sviluppo tecnologico, ha bisogno di pensieri. Beuys ci direbbe, credo, che abbiamo bisogno di una eco-filosofia che ponga a se stessa questioni che non accettino il semplice risarcimento economico e che non prescinda dalla quantità di pensieri inquinati e freddi degli uomini che abitano il pianeta. Il pensare diceva, è la forza interiore, autonoma, grazie alla quale si forma una vita spirituale che prende plasticamente forma. Il pensare significa perfino di più: vuol dire costruire una scultura interiore. Ha a che fare col portare intenzione e volontà in quello che si pensa e che si decide di pensare.

Diventa evidente che il collegamento tra uomo e natura ha bisogno che ognuno di noi, si assuma la responsabilità di produrlo, curarlo, difenderlo. Esattamente le stesse parole che sento dalla bocca di Greta in questi giorni. Ragazza seria, combattiva, Greta Thunberg ha qualcosa che sta facendo la differenza: lei è capace di smuovere calore. La riconosco perché anche lei scrive cartelli, coinvolge altri con frasi ed esortazioni vigorose, e perché un’altra volta vedo lavagne.

Greta Thunberg 2019

La rivoluzione siamo noi

L’approccio alla politica di Beuys non era tradizionale e questo mi dà la certezza che avrebbe stimato Greta. Non solo perché nel ’79 Beuys era candidato al Parlamento europeo, ma anche perché da deputato diceva che la politica ci arriva attraverso i mezzi della parola e del linguaggio che sono poi gli stessi di tante altre discipline. Pertanto, se l’arte è un fattore primario che governa l’uomo e la sua esistenza allora la politica è arte, perché permette la liberazione delle forze creative. Con Greta avrebbe camminato, parlandole dell’opera La rivoluzione siamo noi e di questa azione (e dell’immagine tratta dall’esemplare eliografico del manifesto della mostra del 1971 alla Modern Art Agency), le avrebbe detto che c’è un artista che avanza ma che per lui il senso vero dell’opera sta in quel “noi” del titolo e nella convinzione che l’arte deve essere azione condivisa, coinvolgente e ovviamente rivoluzionaria. Le condizioni di vita opportunamente messe in discussione e negoziate possono cambiare solo grazie al nostro sì e alla creatività che sappiamo mettere in gioco. Se c’è il calore, l’interesse per la cosa, l’amore, l’entusiasmo, diventa possibile il mutare delle cose nell’ambiente che ci circonda, clima compreso.

Questa creatività il cui solo compito è quello di dimostrarci che l’arte non è una faccenda di élite, non è cultura, ma è il vivere, è forgiata dall’intenzionalità, sta nella domanda che Beuys e Greta Thunberg ci pongono ora, malgrado appartengano a due epoche diverse. In quale altro contesto l’uomo può avere coscienza del suo vivere se non nel suo pensiero?

La realtà là fuori è una mezza realtà. È il percepibile. La realtà intera ce l’ho solo grazie al fatto che, ad ogni percezione, io creo un concetto corrispondente; e quando afferro la realtà in termini concettuali posso stabilire tutti i nessi possibili e immaginabili. L’arte è l’appuntamento del venerdì di Greta e quindi battaglia per l’emancipazione. Una ricerca di trasformazione individuale nella quale comunque, ci si occupa di politica.