ILENA AMBROSIO | Il disturbo ossessivo-compulsivo di una donna che ha vissuto la propria vita catalogandola. L’atto “politico” di tre pensionate che si suicidano per non pesare su una società strozzata dalla crisi economica. Come raccontare tutto questo?
Tentare di narrare la realtà, di trovare l’antidoto al virus della finzione che, inevitabilmente, infetta un racconto è la questione per chi sceglie di abitare la scena quasi come fosse un’appendice della vita vera o, quantomeno, uno spazio capace di ospitarne una parte, anche solo un frangente.
La questione per il teatro della coppia Deflorian/Tagliarini che, in una cinque giorni partenopea – iniziata con un incontro aperto all’Asilo – ex asilo Filangieri –, ha portato in scena Reality, alla Sala Assoli, e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazione, al Teatro Nuovo.
Due lavori che, insieme a Rewind, costituiscono la loro Trilogia dell’invisibile, quell’invisibile frammento di realtà che è dietro, anzi, a monte della messa in scena; la sua scintilla generatrice e insieme, la tela sulla quale disegnare una drammaturgia del tutto originale.

In Reality quell’invisibile è la storia vera – raccontata in un reportage narrativo di Mariusz Szczygiel – di Janina Turek. Una donna polacca che, dal 1943 al 2000, anno della sua morte, ha registrato in 748 quaderni tutti i minimi eventi – concreti, solo quelli concreti – della propria vita, classificati per categorie: pasti, letture, programmi televisivi, visite annunciate e non, eventi speciali, persone incontrate per caso.

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La scena, all’inizio vuota, è illuminata qua è là da riflettori su piantane: l’effetto set svela già l’inceppamento. Si fanno le prove del morire, per riprodurre il momento in cui Janina venne meno, in strada, con un infarto. Ma come si fa a «farlo bene se è tutto finto?».
In un progredire drammaturgico fatto di reminiscenze, evocazioni, digressioni, i due attori – ma che sono, insieme, le due persone e, pure, Janina stessa – in-scenano i momenti registrati nei diari. Ricorrono agli oggetti posti a lato dello spazio scenico, recuperati, uno a uno, per rendere visibili quei frammenti di vita, per renderli reali. La busta della spesa che Janina trasportava quando è morta, lo zerbino sul quale stava quando, dopo aver tentato inutilmente di evitare al marito la deportazione ad Aushwitz, decise di iniziare a scrivere i suoi diari; la sala da pranzo e una tazza di caffè nero; la poltrona con la tv dei vuoti pomeriggi di domenica. Materiali preparatori di un ipotetico altro “spettacolo” compiuto ma, insieme, già momenti di realtà che si fa davanti ai nostri occhi.
Di ciascun dato registrato si ricostruisce il contesto, l’antefatto, la condizione emotiva di Janina; la posizione degli oggetti, la luce da una finestra. Se ne valutano i possibili sviluppi – «Chissà se ha mai incontrato Tadeusz Kantor? Vivevano nella stessa città». E tutto si intreccia, quasi impercettibilmente, al qui e ora degli interpreti, al loro modo di sentire, di agire quegli eventi.
Noi ci crediamo, sì, crediamo al racconto di questa vita, crediamo alla realtà che ci stanno mettendo di fronte.

tazzaMa… «Beh, ecco, questo momento non c’è, o, almeno, non è mai stato registrato […] Non è vero che […] Anche questo momento qui […] Anche questo […]».
A poco a poco si solleva il velo di Maya sui momenti che non erano veri, ma solo verosimili; frame dopo frame è riavvolto il nastro della finzione: gli oggetti, a uno a uno, riportati al loro posto per ritornare al vuoto scenico iniziale.
Nel mentre, al calore del racconto si inframmezza la fredda rendicontazione: «748 quaderni […] per 57 anni […] stessa calligrafia […] Conosciamo 4463, colazioni, 5387 pranzi, 5936 cene. Sappiamo che ha ricevuto 38196 telefonate […] Sappiamo […] sappiamo […] conosciamo […]». In quell’anafora ossessiva, l’ossessione di una donna della quale sappiamo tutto, ma, in fondo, forse nulla.
Della sua vita – o mera esistenza? – compulsivamente inventariata, la parte più vera è nelle cartoline che Janina inviava a se stessa: lì emerge l’io, il calore di un essere umano che non solo è ma pure sente, lì la (vera) verità: «Vivo o fingo di vivere? Tutti questi appunti, queste statistiche, non saranno solo un modo per ingannarmi? Se smettessi di scrivere, dovrei ritornare a me stessa».

Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni è una “botta” (cito da commenti degli spettatori), un diretto ben assestato allo stomaco. Perché qui l’invisibile avremmo preferito rimanesse tale; sarebbe stato, di certo, più comodo e rassicurante per le nostre coscienze sopite.
ce_ne_andiamo_per_non_darvi_troppe_preoccupazioni_c2a9claudia_pajewski_8705I quatto interpreti  (si aggiungono, a Deflorian e Tagliarini, Monica Piseddu e Valentino Villa), in realtà, si presentano ritrattando le loro intenzioni, quasi vanificando il nostro stesso essere lì: non sono pronti, hanno deciso di non farlo, di «non accontentarsi» di una recita incapace di rendere degnamente visibile l’invisibile. «Anche perché di fronte a un gesto incomprensibile, gratuito e potente […] come il gesto di quattro pensionate greche che si tolgono la vita sullo sfondo della crisi economica, noi cosa facciamo? Non ci accontentiamo? No.».
Eccola l’immagine che sta a monte. Finta questa volta, perché tratta da un romanzo – L’Esattore di Petros Markaris –, eppure incredibilmente vicina alla realtà.
In un paradosso scenico e dammaturgico quell’immagine, pur non direttamente mostrata, stanzierà solidamente tra i quattro per tutto il tempo.
Affermando di non poterla raccontare, perorando la causa del “no” – l’importanza del dire no derivata dal pensiero di Byung-Chul Han –, in qualche modo la disegnano, anche se con il tratto incerto di un bozzetto: «Il solito gioco. Ti dico quello che non ho intenzione di dirti e intanto te l’ho detto».

La scena è il vuoto di una stanza occupata solo da quattro sedie, un tavolo e dalla gelida luce di un neon. Tutto è affidato alla parola che dirige gesti e spostamenti degli interpreti, spesso fissi in quei tableaux ricorrenti nel teatro di Deflorian e Tagliarini, specialmente se in compagnia di altri attori. In quelle parole e in quei gesti i dettagli della “scena madre” – le gonne ben stirate, le calze nuove, la vodka, i sonniferi, le carte d’identità lasciate insieme bigliettino: «Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni» – si impastano con le possibilità vagliate dagli interpreti per rappresentarla e, insieme – così come in Reality – con il loro io, che inevitabilmente si smuove a contatto con quel materiale e, al contempo, lo muta.

I quattro tentano e ritentano di “farlo bene”, di farci vedere quell’ultimo momento di vita – «eppure così pieno di vita» – delle quattro donne ma «se attorno a questo non preme la realtà, tutto quello che sta intorno, la crisi economica, Atene, la periferia, la gente incazzata…».
La realtà, ancora la questione della realtà: persone che frugano nei cassonetti alla ricerca di cibo; i dipendenti del ferramenta di Antonio costretto a chiudere; 40.000 suicidi in Grecia dal 2008; la spesa al discount di Valentino; le cartelle di Equitalia; tre pensionati che si uccidono a Civitanova Marche…

Senza soluzione di continuità i tentativi di rappresentare la fiction, si fondono con il racconto del vero. Così il dramma concreto di questi rende palpabile l’immagine invisibile che, sola, sarebbe rimasta forse solo fiction.
La palpabilità, allora, la materialità, questa la soluzione al dilemma: «Serve un gesto, un gesto semplice […]. Un’azione, un’azione concreta. Il corpo. Ecco l’unica cosa che ci rimane e che nessuno ci può togliere».

Sarà affidato al corpo, allora, alla «responsabilità di un gesto», il compito di mostrare ciò che le parole non possono dire. Gli oggetti di scena vengono ricoperti di rivestimenti neri: le sedie, il tavolo, i bicchieri e la bottiglia di vodka; i quattro interpreti fanno lo stesso con il proprio corpo, indossando calze – quelle acquistate dalle donne prima di morire, perché non si muore con le calze bucate –, gonne – quelle ben stirate – maglioni, passamontagna neri e parrucche dal taglio corto.

CE-NE-ANDIAMO-PER-NON-DARVI-ALTRE-PEROCCUPAZIONI-una-scena_01
Quattro figure nere che, una dopo l’altra, si ammutoliscono e immobilizzano sulla scena,  ora totalmente scura. L’eco di un sirtaki – il desiderio di imparare a ballarlo riempie le ultime battute della pensionata/ Monica – risuona nella mente; il tempo si ferma e ci si concede per vedere il gesto – illuminato dall’intensificarsi della luce al neon – ,sentirne la potenza, comprenderne il senso. Buio.

Prove, tentativi, confronti e riflessioni che sfiorano il rimuginio: di questo si riempie la scena del teatro di Deflorian e Tagliarini nello sforzo perenne di dar forma e sostanza all’oggetto invisibile, alla realtà altra che sta fuori, alle spalle. Parrebbe, così, che a mostrarsi sia proprio lo scarto, il “fallimento”. Impossibile vaccinarsi per il virus della finzione. Il personaggio e la persona, proseguendo su rette parallele, persistono in quella contraddizione che è consustanziale al teatro. Ma Deflorian e Tagliarini, in una declinazione originale e raffinatissima della metateatralità (moderni eredi di Pirandello), la esorcizzano quella contraddizione, le danno residenza in scena, la abitano in quanto parte, essa stessa, del reale. Ciò che ne riceviamo, allora, non è l’amarezza dello svelamento e della disillusione ma la pienezza di un gesto carico di sincerità e verità.
La pienezza della realtà.

 

REALITY

a partire dal reportage di Mariusz Szczygieł Realitytraduzione di Marzena Borejczuk, Nottetempo 2011
ideazione e performance Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
disegno luci
Gianni Staropoli
consulenza per la lingua polacca Stefano Deflorian, Marzena Borejczuk e Agnieszka Kurzeya
collaborazione al progetto
Marzena Borejczuk
organizzazione
Anna Damiani
produzione e accompagnamento internazionale
Francesca Corona
direzione tecnica
Giulia Pastore

produzione A.D., Festival Inequilibrio/Armunia, ZTL-Pro con il contributo della Provincia di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali
in collaborazione con Fondazione Romaeuropa e Teatro di Roma
residenze artistiche Festival Inequilibrio/Armunia, Ruota Libera/Centrale Preneste Teatro, Dom Kultury Podgórze
con il patrocinio dell’Istituto Polacco di Roma
con il sostegno di Nottetempo, Kataklisma/Nuovo Critico, Istituto Italiano di Cultura a Cracovia, Dom Kultury Podgórze
ringraziamenti
Janusz Jarecki, Iwona Wernikowska, Melania Tutak, Magdalena Ujma e Jaro Gawlik
un ringraziamento speciale a
Ewa Janeczek

Sala Assoli, Napoli
1 marzo 2019

 

CE NE ANDIAMO PER NON DARVI ALTRE PREOCCUPAZIONI
ispirato a un’immagine del romanzo di Petros Markaris “L’esattore”

un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
con Daria Deflorian, Monica Piseddu, Antonio Tagliarini e Valentino Villa
collaborazione al progetto Monica Piseddu e Valentino Villa
luci di Gianni Staropoli
consulenza per le scene Marina Haas
organizzazione Anna Damiani
produzione e accompagnamento internazionale Francesca Corona
direzione tecnica Giulia Pastore

una produzione A.D.
in coproduzione con Teatro di Roma / Romaeuropa Festival 2013 / 369 gradi
in collaborazione con Festival Castel dei Mondi
residenze artistiche Centrale Fies / Olinda / Angelo Mai Altrove Occupato / Percorsi Rialto / Romaeuropa / Teatro Furio Camillo / Carrozzerie n.o.t
un ringraziamento ad Attilio Scarpellini e a Francesco La Mantia, Francesca Cuttica, Valerio Sirna, Ilaria Carlucci, Alessandra Ventrella

Teatro Nuovo, Napoli
2 marzo 2019

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