MARTINA VULLO | Se spesso capita, osservando le diverse opere di un artista, di riscontravi un unico leitmotiv, che, con le dovute variazioni, torna costantemente a presentarsi, un elemento ricorrente nelle opere di Rosario Palazzolo è un certo senso di claustrofobia.
53484846_10219393481454002_5211679124178862080_nNon è improbabile che al Teatro della Contraddizione di Milano, nel corso delle repliche de L’ammazzatore – riduzione teatrale dell’omonimo romanzo del drammaturgo palermitano, per la regia di Giuseppe Cutino –  il pubblico più affezionato all’autore abbia pensato alla signora Letizia: protagonista del precedente fortunato monologo Letizia Forever che, attraverso il volto e l’espressività di Salvatore Nocera, si raccontava in un mix di vivacità e nostalgia in grado di trasmettere agli spettatori tutto il senso dell’angoscia di una vita e una vitalità amputate nella loro potenzialità.
A ricordare Letizia in L’ammazzatore, non era solo il corpo dell’attore che l’aveva impersonata e che ora calcava il palcoscenico insieme allo stesso Palazzolo. Non era neppure solo la presenza di quel ricorrente idioma ibrido – ormai divenuto cifra della poetica del drammaturgo/scrittore – in cui una lingua italiana un po’ sgrammaticata, accostata ad espressioni palermitane dà vita a sequenze ritmiche foneticamente potenti, che creano un’atmosfera, ancor prima di fungere da significante (Giuseppe Cutino, durante la presentazione post-spettacolo della trilogia Santa Samantha Vs, ha parlato di “drammaturgia del suono” in riferimento alla «musicalità e ritmicità della lingua, in grado di interrompere il respiro, scardinando il comune sistema linguistico e facendo rinascere la parola»).

A rendere tanto vicini i due personaggi è piuttosto il ricorrente senso di inquietudine e di angustia che si prova a fronte della loro costrizione e impossibilità di movimento: conseguenza, in entrambi i casi, di un contesto sociale ostile misto a una certa inettitudine ad affrontare la vita.
Il limite del protagonista de L’ammazzatore consiste, nello specifico, nell’incapacità di dirigere la propria esistenza: non riuscendo a definire ciò che desidera, né tanto meno a rifiutare ciò che non vuole, Ernesto Scossa permette che le circostanze decidano al suo posto, fino a ritrovarsi, quasi per inerzia, ad uccidere la gente.
53668369_10219393481534004_2785606988074057728_nSe nella versione narrativa la sua storia è raccontata in prima persona, attraverso una sorta di flusso di coscienza che fa coincidere la prospettiva del lettore  con quella del protagonista, diverso è lo sguardo che si ha all’interno della riduzione teatrale, giocata invece su una soluzione a due.

In scena Nocera e Palazzolo in abiti eleganti da show man, si alternano in un unico discorso, parlano in simultanea, dialogano fra loro e ammiccano al pubblico in un meccanismo quasi da stand up comedy americana. Alcune dinamiche finalizzate a evitare l’immedesimazione del pubblico, quali la rottura della quarta parete – operata anche fisicamente da Palazzolo che, a volte, si colloca fra gli spettatori – le gag giocose o la pistola d’acqua verde fluo a contrastare la gravità della scena di omicidio, fanno venire in mente le strategie di straniamento messe in atto nel teatro brechtiano, al fine di favorire il pensiero critico del pubblico (interessante, a questo proposito, la vicinanza fra un Brecht che metteva in guardia da quel teatro «culinario» e di immedesimazione che intrattiene e non istruisce, e un Palazzolo che nella premessa al workshop di drammaturgia tenuto al Teatro della Contraddizione, riflette sulla pericolosità dell’incantamento, definito come «una specie di condivisione emotiva che conduce all’immedesimazione»).
Con questo sguardo distaccato, L’ammazzatore si focalizza su una tragedia tutta interiore che non ammette vie di scampo: nell’unica occasione in cui il protagonista prende infatti una decisione, le precedenti non-scelte gli si riversano con forza contro,  sconfiggendolo nuovamente e re-immergendolo in quel contesto claustrofobico dal quale avrebbe voluto fuggire.

Sembra impossibile non soffocare un po’ di fronte ai personaggi di Palazzolo. Ma esattamente come accadeva per Letizia, anche in questo caso siamo di fronte a un senso di asfissia che agisce piano piano, progressivamente, per frammenti, camuffandosi fra una risata e l’altra, per ritornare poi a colpire nella calma che segue l’assimilazione.

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Funzionali allo sguardo straniante risultano le scelte registiche di Giuseppe Cutino: pochi oggetti scenici (tra cui si distingue il grande lenzuolo bianco a fungere da elemento diegetico, oggetto simbolico e costume di scena), un ampio utilizzo dell’elemento musicale e un continuo gioco di alternanza tra il fuori e il dentro della narrazione, che non esclude momenti di citazionismo pop e trasversale (come nel caso della canzone di Pupo presente in Letizia Forever o la rievocazione del titolo della raccolta Iddi, attraverso l’appellativo siciliano usato per riferirsi al pubblico).
Una messinscena giocata sulla leggerezza che, complice anche la capacità dei due attori, si rivela potente nel restituire e valorizzare, attraverso un gioco di contrasto, tutta la densità delle tematiche affrontate nel romanzo, conferendo ulteriore forza al mondo “cattivo” ed esilarante costruito da Palazzolo.

 

L’AMMAZZATORE

di Rosario Palazzolo
regia di Giuseppe Cutino
con Rosario Palazzolo e Salvatore Nocera
scena e costumi Daniela Cernigliaro
disegno luci Petra Trombini
aiuto regia Simona Sciarabba
una produzione ACTI Teatri Indipendenti, Teatro Biondo Palermo
in collaborazione con Teatrino Controverso, T22 e M’Arte Movimenti d’Arte

foto di Giuseppe Contarini

Teatro della Contraddizione, Milano
2 marzo 2019

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