RENZO FRANCABANDERA | Fatto di cronaca. Il teatro ne prende spunto per una riscrittura drammaturgica.
La storia vera.
A fine gennaio 2016 la Procura di Ivrea apre un’inchiesta per omicidio, a carico di ignoti, in seguito alla scomparsa di Gloria Rosboch, insegnante di 49 anni residente in un paesino della zona. La donna viveva in casa con gli anziani genitori. Pochi mesi prima, nel settembre 2015, l’insegnante aveva presentato una denuncia per truffa nei confronti di un ex studente, allora 22enne, Gabriele Defilippi che, promettendole un futuro insieme, si era fatto consegnare tutti i risparmi di una vita della famiglia Rosboch, attraverso una truffa perpetrata all’estero. Il cadavere della donna verrà scoperto di lì a poco, e nelle indagini sarebbe poi entrato per il suo ruolo non secondario nella vicenda anche un 53enne della zona, con cui il ragazzo aveva una relazione.
La trasposizione drammaturgica.
Definita fin dal titolo un mèlo, la vicenda trascritta è sostanzialmente fedelissima. Gioia Montefiori (una Francesca Turrini molto attenta a stare nelle indicazioni di regia e a disegnare un personaggio fragile e imbranato), 47 anni, insegnante di sostegno, vive con l’anziana madre nella casa di famiglia; Alessio Benedetti (uno scorretto Michele Degirolamo) studente di 17 anni dall’identità di genere non univoca, con dodici profili su Facebook e numerose identità vissute, sogna una vita di ricchezze fuori dalla routine del paesino; Cosimo Comes (Gabriele Benedetti, notevole nel suo torbidume di provincia), parrucchiere di 54 anni, ha un salone di bellezza e un cane. Ha una relazione discontinua col ragazzo e lo aiuterà a sbarazzarsi della donna.
Se non sporca il mio pavimento per la regia di Giuliano Scarpinato, che ne scrive il testo insieme a Gioia Salvatori, si basa nella lettura del regista sulla forza archetipica dei suoi personaggi, che richiamano il mito di Eco e Narciso. La ninfa dannata e il giovinetto perduto di cui ricorda le vicende Ovidio nelle Metamorfosi. E così dichiara il suo intento con un «Mi piacerebbe raccontare di questo incastro nel limbo dell’adolescenza».
La scena è uno spaccato angolare della stanza della donna, sormontato in alto da un tondo che si rivelerà presto superficie di proiezione per le apparizioni della immanente e grottesca figura materna (Beatrice Schiros in video) che parla da un’altro ambiente nel quale la immaginiamo ferma, imbambolata davanti alla tv, a dare disposizioni alla figlia su come vivere. Lei, ripiegata su se stessa, fantozziana, lavora al computer ed è vestita come la nonna, con gambaletti color brodo e ogni altro elemento idoneo a renderla inappetibile per qualsiasi desiderio. Lui, una canaglia adolescente, ibrido e liquido nelle sue tante personalità, si sviluppa però drammaturgicamente in maniera abbastanza chiara fin dall’inizio, rimanendo per la durata dello spettacolo un cinico utilitarista, abile manovratore. Poco in evidenza le sue fragilità, a differenza di quelle della donna, schiacciata dalla famiglia non meno che da questo sentimento che irrompe nella sua vita, in fondo rompendo gli argini e i limiti di una vita da repressa.
Il codice registico di Scarpinato, come in fondo quello della scrittura, ruota intorno al tentativo di creare una sorta di realismo magico, un intreccio fra il visivo (molto presente sempre in funzione dialogica e riverberante il video), la parola e il corpo. Ancora manca però una tridimensionalità poetica.
In Fa’afafine – mi chiamo Alex e sono un dinosauro, spettacolo comunque di successo su un bambino che scopre la sua omosessualità, forse il tema più critico nell’impianto drammaturgico era, a mio avviso, l’indirizzare in maniera appropriata il linguaggio verso un pubblico di destinazione individuato non precisamente nell’infanzia/adolescenza (nonostante allo spettacolo siano arrivati diversi e prestigiosi riconoscimenti in questa direzione).
Qui, invece, il tema è una certa didascalia: volendo raccontare l’adolescenza bloccata in una provincia piatta, si finisce per creare una rete di riferimenti fra parole, gesti e ambiente, in cui tutto è chiuso su se stesso e il concettuale riferirsi alla medesima cosa affiora sovente. Questi caratteri infatti sono tutti un po’ ammalati di una fragilità psicologica, di costrutti relativi alla visione del mondo fragili e che non corrispondono alla realtà.
Ma nello spettacolo l’unica mappa psicologica soggettiva che leggiamo con più nitore e che distorce il mondo, il territorio-mondo circostante, è quella della donna, di cui sono esplicitati meglio i potenti condizionamenti a livello inconscio, e che non nascono nel rapporto con il ragazzo ma con altre dinamiche repressive di matrice genitoriale, che portano a rappresentazioni parziali e distorte di sé, degli altri, del mondo e delle relazioni.
Bene gli attori, ma registicamente e nello sviluppo del pensiero e della sospensione poetica che specifica la differenza fra la realtà e il realismo magico, occorre lavorare ancora, perché non è cosa che si può risolvere solo con questioni di pertinenza scenografica. Pensare la parola e immaginarla messa in scena è forse uno dei vizi alla base di questo inciampo concettuale, quando si pensa già un po’ all’allestimento mentre scrive. È il rischio della scrittura che nasce magari in parte anche sulla scena.
E invece proprio quella distanza va recuperata, per evitare barocchismi e ridondanze nei segni.
SE NON SPORCA IL MIO PAVIMENTO – UN MÉLO
drammaturgia Giuliano Scarpinato, Gioia Salvatori
regia Giuliano Scarpinato
interpreti Gabriele Benedetti, Michele Degirolamo, Francesca Turrini
in video Beatrice Schiros
scene Diana Ciufo
luci Danilo Facco
progetto video Daniele Salaris
costumi Giovanna Stinga
visual setting Mario Cristofaro
assistente alla regia Riccardo Rizzo
produzione Wanderlust Teatro/ CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
in collaborazione con Teatro di Rifredi, Corsia OF – Centro di Creazione Contemporanea, Industria Scenica, Angelo Mai Altrove Occupato
Progetto vincitore “Odiolestate” – residenza produttiva Carrozzerie / n.o.t Roma
PRIMA MILANESE