MARIA CRISTINA SERRA | Si entra in punta di piedi nel film autobiografico di Alfonso Cuaròn, Roma, con un piano sequenza anticipatore di un racconto fluido, costruito su frammenti intimi e accadimenti storici in un’alternanza fra passato e presente. Sembra di entrare in un luogo conosciuto. Un affondo nella memoria dell’infanzia, con la distanza emotiva dell’oggi, senza anfratti psichici. La malinconia è velata, non è mai rimpianto, ma è il tramite narrativo, la messa a fuoco di una tragedia privata, che corre parallela a quella pubblica del Messico anni Settanta, dilaniato da lotte sociali e insanguinato da feroci repressioni.
La macchina da presa ci accompagna nell’ingresso della villa di famiglia, mentre lo scroscio dell’acqua saponata sovrasta le immagini della domestica “mixteca” Cleo, intenta a pulire gli escrementi del cane. La nitidezza del bianco-nero, scevra da tentazioni vintage, e la luminosità di una fotografia essenziale evidenziano i dettagli: le trasparenze del pavimento bagnato a specchio; il vigore di Cleo che impugna la ramazza; la quotidianità che fa da contrappunto al volo dell’aereo mentre squarcia il cielo. Metafore contrapposte; lacerazioni che nell’intreccio filmico si sovrappongono ritmicamente con piani sequenza e ampie panoramiche, per conferire unitarietà alla storia. Una lontananza che avvertiamo vicina, come immagini fotografiche che perdono la loro staticità. Un convergere di tempo e spazio per afferrare immagini sfuggenti e legarle all’esistente.
Emergono assonanze con il cinema sperimentale e la maestria fotografica di Manuel Alvarez Bravo, con il suo immaginario privo di folklore che esplora le mutazioni e le tradizioni del suo Messico in fermento post-rivoluzionario, per elevarlo a estetica formale. Cleo, la mite e umile custode dei segreti familiari ci rammenta uno di quei ritratti femminili plasmati dal sole da lui immortalati. Lei sembra intuire il futuro prima che si manifesti: ha il volto scolpito di sacrale antichità e racchiude in sé l’attitudine etica alla sofferenza di un popolo sottomesso, ma non vinto, portatore di una saggezza epica. Attraverso i suoi occhi vedremo il massacro del Corpus Christi, nel giugno del ’71, con la caccia feroce agli studenti fin dentro gli ospedali. Sarà proprio lei, distante per ceto sociale ed etnia dalla famiglia borghese affidata alle sue cure, a fare da fil rouge a una saga corale, in un crescendo drammatico di eventi, inframezzati da tratti paradossali che evidenziano un Paese in bilico fra faticosa modernizzazione e inamovibili gerarchie di classe.
Le cicatrici sociali del Messico sono secolari, un labirinto di relazioni che ci rimanda, quasi osservandole in filigrana, a sfogliare l’album fotografico di Tina Modotti, dedicato a quel Paese ancestrale e composito, che negli anni ’30 divenne la sua Patria elettiva. «Sono sempre in lotta per plasmare la mia vita senza perdermi nell’arte», scriveva. Ed in quell’ambiente di avanguardie artistiche che il suo immaginario in chiaroscuro, dal forte potere descrittivo, si concentrò sulla condizione femminile, sul lavoro contadino e operaio come allegoria dell’esistenza. Inquietudine, passione e ansia esistenziale per la libertà sono i segni distintivi della sua personalità e si traducono in modo speculare nel suo fare artistico. Le sue giovanili esperienze di attrice teatrale e femme fatale per il cinema muto ai suoi esordi le daranno la misura di come porsi dietro alla sua Rolleiflex, con occhio sensibile.
Inizialmente, influenzate dalla Bauhaus tedesca, le sue fotografie sono minimaliste, seguono linee architettoniche e geometriche dalle prospettive essenziali, per farsi poi più sinuose, con nature morte che liberano la sua sensualità. Ma poi il suo vocabolario formale prende la via della“Street Photography e del realismo.
Non è una rottura con gli esordi, bensì un’evoluzione della sua parabola artistica. L’intuito la guidava nella scelta delle inquadrature e la disciplina etica sosteneva la sua ansia di documentare ciò che la realtà le mostrava. Le sfumature dai contorni imperfetti avvolgono con tocchi vibranti i soggetti da lei prescelti: le strade polverose, i vicoli in salita senza fine, stretti da muri scrostati, i bambini scapigliati ammucchiati in una tinozza, le donne dai visi bruciati dal sole con le ceste sulla testa: le bambine dagli sguardi senza infanzia e le proteste dei campesinos sono affreschi senza tempo. Li ritroviamo nel Messico di oggi, separato dai muri eretti a difesa della “civiltà”.
La parentesi messicana di Tina è occasione per una profonda amicizia con Frida Kalho ed è testimoniata dalle foto che le scattò. Una Frida insolita, in abiti sobri, capelli liberi dalle costrittive trecce: una dolcezza sopita, in contrasto con la sua arte sfolgorante di colori e di dolore; sontuosa negli autoritratti, con corone di spine, busti che le imprigionano il corpo, gli spazi pieni di animali e simboli votivi che rimandano alla vitalità della sua terra. È una pittura che si rivolge al dualismo mitologico del divino scisso fra sole e luna, che nei suoi quadri rappresenta con opposizioni di luci e oscurità. Il suo linguaggio figurativo si rivolge alla cultura precolombiana: è concretezza, fantasia popolare sublimata in una sintassi del tutto personale. «Non sono una surrealista!, precisava, «non racconto sogni, ma realtà.» Un Messico cosmico, il suo e quello della Modotti, ma non in opposizione a quello moderno e industrializzato descritto da Cuaròn.
Una storia di donne, in fin dei conti. Di solidarietà femminile. Di tradimenti e di rinascita, dove sono gli uomini a essere perdenti. L’egocentrico borghese Antonio, goffo nelle manovre di parcheggio della sua Galaxy Ford, fugge dalla famiglia con la scusa di un lavoro all’estero. L’esaltato Firmin, sottoproletario dedito alle arti marziali e ingaggiato dagli squadroni della morte, si dilegua da Cleo con una meschina bugia alla notizia della gravidanza. Nella scena conclusiva, la potenza dell’Oceano sta per travolgere i bambini che si tuffano fra le onde. Sarà Cleo a sfidare la natura e a salvarli; a garantire la quiete dopo la tempesta.