RENZO FRANCABANDERA | Da taluni punti di vista può risultare sorprendente il numero di spettacoli in circolazione in questi mesi che riportano l’attenzione dello spettatore sulle questioni della famiglia. Va tuttavia considerato che lì dove per centinaia e centinaia di anni l’alterità per il nucleo familiare era rappresentata, per un verso, dei temi dell’individuo come singolo e, per altro, da quelli della società, la dissoluzione di quest’ultima dimensione dentro le vuote scatole dei social media, l’inesistenza pressoché totale di istanze di piazza, la crisi della rappresentanza nelle istituzioni democratiche, di presenza concreta delle questioni politiche o religiose come era un tempo nei quartieri, nei territori; tutto questo rende di fatto la famiglia luogo di assoluzione e dissoluzione dei propri peccati, riverbero di un’identità che non si libera mai non solo dei legami, come per natura sempre è, ma anche delle dinamiche, che si mantengono spesso identiche e immutabili nonostante il passare del tempo.
Scorriamo attraverso tre creazioni in circuitazione in questo periodo, alcune tematiche fra l’antropologico e lo psicanalitico. Lo facciamo con Patres di Saverio Tavano (visto nella bella rassegna diffusa fra alcuni comuni della provincia bergamasca a cura di Qui e Ora), con il ritorno in scena, dopo quasi un decennio, di Senza Famiglia, testo di Magdalena Barile riallestito da Il Mulino di Amleto, che di recente ha debuttato a Milano a Campo Teatrale, e con In nome del padre di e con Mario Perrotta, che ha debuttato a dicembre al Piccolo Teatro e sta girando adesso l’Italia con una felice tournée, e che abbiamo visto a Monza al Teatro Manzoni.
Stupisce come, comune a tutti questi lavori, sia in particolare la figura paterna, la sua dimensione allo stesso tempo presente e assente, non di rado egoista e infantile, destinata in ogni caso a segnare il rapporto con i figli.
Parte proprio da questo, ad esempio, Patres, scrittura e allestimento del drammaturgo, attore e regista siciliano di nascita ma calabrese di adozione Saverio Tavano. Si tratta di una creazione potentemente simbolica costruita attorno alla figura di un figlio menomato, cieco, che aspetta il ritorno di suo padre sulla spiaggia di un mare che riesce a sentire ma non a vedere.
La notevole interpretazione di Gianluca Vetromilo conferisce a questo personaggio una potenza quasi ieratica nella sua fragilità immobile. Lo spettatore fissa per un’ora le palpebre dell’attore, proiettando su di sé l’universo di segnali eminentemente sonori che arrivano dall’esterno e incatenano questo ragazzo a un vissuto deprivato, che non trova consolazione se non nella presenza di un cane, mansueto e forse pure lui alla catena.
Arriva poi questo padre (un ispido Dario Natale). Arriva e lo travolge con la sua personalità scomposta e in un certo senso infantile, probabilmente tale per coprire il suo vissuto drammaticamente coerente con la dannazione di una terra che continua, per molti versi, ad assomigliare al proprio stereotipo, e che le giovani generazioni forse preferiscono allora non guardare, rimanendo però incatenate a questo passato ineludibile.
In questa parte centrale e a due, regia e drammaturgia incontrano qualche difficoltà di fluidità che in scena si ammortizza con una dinamica di movimento molto intensa, anche se con qualche segno, in fin dei conti, superfluo. Ma l’equilibrio emotivo resta ben saldo attorno al ragazzo, a questo uomo solo, che preferisce la sua ingenuità vincolata ad una libertà che non riesce in fondo a immaginare ma che immaginiamo noi, con le sue derive e cattiverie.
La figura genitoriale diventa quindi elemento simbolico di un retaggio sociale. Al netto di qualche passaggio drammaturgico meno consistente, la scrittura rimane viva per tutto il tempo dello spettacolo, ricorrendo al dialettale che rimane però sempre comprensibile, come pure l’azione di scena, leggibile per qualunque tipo di pubblico e composta scenograficamente di luci e panni stesi. Una costruzione onesta e nel complesso ben fatta.
Senza famiglia è un lavoro che nel mio caso testimonia il passare del tempo anche per chi la scena la racconta. Ricordo ancora diversi elementi del primo allestimento di questa drammaturgia della allora giovanissima Magdalena Barile, portata in scena al Crt salone da Animanera. Sono passati diversi anni.
Era, e per taluni versi nonostante il tempo ancora è, un testo che con caustico avanguardismo, metteva a terra le dinamiche relazionali familiari della società liquida, ma anche l’incapacità, forse molto italiana, di tagliare il cordone matrilineare che si segue di generazione in generazione.
Una nonna, sua figlia un po’ tonta e pop, il marito bamboccione di costei, i figli: questi i personaggi. La nonna è la classica donna impegnata che, negli anni ruggenti del secolo scorso, ha fatto le sue rivoluzioni; è consapevole di una femminilità potente, che però è stata incapace di trasmettere, almeno in apparenza, a sua figlia. Lo spettacolo ruota proprio attorno all’emancipazione di quest’ultima, alla sua presa di coscienza della maturità e dell’identità. Speculare alla stasi della figura maschile, simbolicamente inadatta a evolvere.
Una nonna androgina e wharoliana si contrappone a un maschietto molto freak e insicuro. Sono loro i due estremi fra cui si barcamena la figura femminile.
Ma questa famiglia non è realmente quasi mai una unità aggregata. Scenicamente sono spesso allineati, una somma di singoli. Mai gruppo. Ora, come in occasione del primo allestimento, mi resta la sensazione di una drammaturgia con una sorta di cesura, con una prima parte in cui prevalgono la cifra ironica e un certo ritmo fra i personaggi, contrapposta alla seconda, più psicologico-sarcastica. La lettura che ne fa Marco Lorenzi non può evitare la cesura e spinge la seconda parte verso un simbolismo che, seppur interessante, non riesce a schivare del tutto la sensazione di una drammaturgia con modalità di sviluppo testuale e ritmico, che si sostanziano in due parti molto diverse fra loro e non facili da armonizzare: probabilmente il testo, lasciando a mezza via lo sviluppo narrativo dei personaggi dei figli, ha solo in parte la forza di reggere il robusto approccio simbolico che invece Lorenzi sceglie.
Zoomorfismi e travestimenti pop, scene finte e universi accennati con pochi elementi in ambienti carichi di cromatismi luminosi (restano in mente le luci di Eleonora Diana, che portano con sé universi narrativi). Belli i costumi e interessanti i movimenti di scena.
Ci sono parti dello spettacolo di grandissimo divertimento. La prima parte è godibilissima, complice il testo che funziona. Anche nella seconda c’è un tentativo registico non banale di dare struttura quasi psicanalitica al testo, che però involve su un binario non facilissimo da percorrere. Apprezzabile l’ardimento, che arriva a risultato solo in parte.
Se in Senza Famiglia le donne evolvono, cambiano, tengono i giochi, le figure maschili escono un po’ sterilizzate. È una modernità senza Uomo la nostra? L’interrogativo non è casuale nell’atterrare sull’ultimo spettacolo di cui diciamo, In nome del padre (già raccontato da PAC) di e con Mario Perrotta, che costruisce il suo lavoro partendo proprio da una profonda indagine sulla psicanalisi della figura genitoriale maschile oggi. Della sua assenza archetipica, essenzialmente.
Quelle di oggi sono figure paterne dal contorno sfumato, che nascono probabilmente anche dal conflitto fra schemi e modelli nati in sistemi economico sociali e produttivi completamente diversi da quelli della effimera società dei servizi e digitale di oggi.
Dal padre “Narciso” al padre azienda, dal padre “figlio” al padre conquistatore, al finto democratico, la parata attoriale e simbolica che Perrotta ci mette sotto gli occhi ci racconta di essenze fumose, incapaci di crearsi un ruolo, e che quindi si rifugiano in un personaggio. Perrotta si è avvalso, nella strutturazione del pensiero e nell’individuazione delle figure, della consulenza scientifica e in un certo qual modo drammaturgica, di Massimo Recalcati, pensatore assai attivo negli ultimi anni nella divulgazione mass mediale sui temi dell’essere oggi.
Perrotta compone un intreccio narrativo nuovo rispetto alle strutture di scrittura fino a ora proposte, rivelando un coraggio non comune nel tentativo di esplorare i potenziali espressivi del suo essere uomo di scena. Passando dai primi lavori che nascevano ispirati da combinazioni più vicine alla narrazione, pur mantenendo nei suoi spettacoli la capacità tutta meridionale del “cuntare”, Perrotta ha comunque esplorato senza pentimenti la riscrittura del classico, il teatro fisico, l’interpretazione mimetica e quella invece post drammatica. Forse sono opere non sempre o non tutte perfette, ma comunque sudate, costruite artigianalmente con fatica da uno fra i pochi “solisti” del teatro italiano a non essersi fermato su un modulo “comodo”, a essersi comunque cercato e pensato sempre in una dimensione dinamica. È un dato di fatto che nessuno di Perrotta potrà mai dire di aver visto spettacoli fotocopia.
In nome del padre intreccia tre figure paterne distantissime e opposte: l’intellettualoide sicuro di sé e incapace di ascoltare, logorroico, un po’ Furio di Verdone, che cerca di entrare in sintonia con un figlio che, come estremo atto di ribellione al saputello senescente, si chiude in camera sua. Il secondo, un padre di pochi mezzi culturali invece, che vive le sue insicurezze nel rapporto con un figlio ormai grandicello, ma nato troppo in fretta dopo l’inizio di una relazione di gioventù: bei tempi, lui suonava la chitarra da dio, lei se ne innamorò sentendolo suonare. Ma l’artista e l’uomo giù dal palco sono figure che sovente non combaciano, e questo grande uomo con la chitarra diventa un debole e incapace in tutte le altre cose della vita, prima fra tutte quella di esser padre. Caratteristica, quest’ultima, che condivide con il terzo tipo umano tratteggiato dalla penna di Perrotta aiutata da Recalcati: il padre latin lover, quello che gigioneggia pure con la figlia, senza senso del limite. La penna drammaturgica su questo tipo umano mantiene volutamente l’equivoco sulla reale portata di questa figura, ma il tema profondo e comunque straniante per gli spettatori nasce dal riflesso sul palcoscenico di un’umanità in crisi di ruolo.
Non è più tempo per i padri. Non ci sono, più nel molle occidente senza regole, i padri della patria, i padri fondatori, e nemmeno i padri padroni. Le brutte copie dei dittatorelli girano in felpa e jeans, impossibilitati dalla debole forza di volontà, a regalarsi un fisico scultoreo e neoclassico. Figuriamoci quelli che li sostengono, poi: siamo in epoche in cui seguiamo fideisticamente delle brutte copie.
E così pure in casa, a questi padri incapaci, corrispondono figli certamente non in grado di elaborare forme di conflitto strutturate: nessuna Antigone in queste famiglie insomma.
Sono invece, per necessario contrappasso, figure che più facilmente si abbandonano al silenzio, alla depressione, al cellulare, svaccate sul divano. Per non parlare delle risposte sempre più frequenti che arrivano per il tramite del rapporto malato con il cibo.
Tornando allo spettacolo, la scena è vuota, eccezion fatta per tre installazioni scultoree in metallo che ritornano proprio su questi archetipi scarnificati di figure paterne che non sono più: il discobolo titanico, il pensatore dannato, il narciso vero. Ne vediamo tre invece incarnate dall’attore, irridenti e farsesche ripresentazioni, fragili, che Perrotta continua a intrecciare in un recitato potente e fisico, giocato sul cambio dei dialetti e sul mantenimento progressivo delle temperature emotive. Se il testo ha qualche momento di flesso e di stanca, in scena comunque è impossibile non seguire il ritmo dell’attore. Che qui, come in quasi tutti i lavori di Perrotta, viene prima e davanti a tutto.
PATRES
con: Dario Natale e Gianluca Vetromilo
regia: Saverio Tavano
drammaturgia: Saverio Tavano
tecnica: Pasquale Truzzolillo
Foto di scena: Angelo Maggio/Pasquale Cimino
Festival Primavera dei Teatri 2014
Miglior spettacolo festival Inventaria 2014 Teatro dell’Orologio Roma
Vincitore del Premio contro le mafie del MEI 2014
Secondo premio al Festival Teatrale di Resistenza Museo Cervi – (RE)
Premio Riccardo Pradella Teatro Filodrammatici Milano 2018
SENZA FAMIGLIA
di Magdalena Barile
regia Marco Lorenzi
con Christian Di Filippo, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Alba Maria Porto, Angelo Maria Tronca
light designer Eleonora Diana
manifesto Daniele Catalli
distribuzione Valentina Pollani
organizzazione Annalisa Greco
ufficio stampa Raffaella Ilari
uno spettacolo di Il Mulino di Amleto
produzione ACTI Teatri Indipendenti / Il Mulino di Amleto
con la collaborazione produttiva di Campo Teatrale, Milano
con il supporto di Residenza IDRA nell’ambito del progetto CURA 2018
con il sostegno del Centro di Residenza della Toscana (Armunia Castiglioncello – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro)
Spettacolo finalista al Premio Scenario 2017
Debutto nazionale 26 febbraio 2019 – 3 marzo 2019 @Campo Teatrale Milano 22-23-24 marzo 2019 @teatro bellARTE, Torino
IN NOME DEL PADRE
di e con Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
produzione Teatro Stabile di Bolzano
prima nazionale Piccolo Teatro di Milano, Dicembre 2018
[…] via Affari di famiglia, con assaggi di figura paterna e contorno di assenze: Perrotta, Tavano e Il Mulin… […]