ILARIA COSTABILE| Un imponente piano inclinato che sconfina nella platea, abitato da una poltrona in primo piano, delle sedie che costeggiano le quinte su cui pendono delle piccole cisterne in acciaio, come d’acciaio sono le sedute che occupano il centro del palcoscenico, ancora privo di vita, prima che le tonanti note della Sinfonia 7 di Beethoven irrompano sulla luce bluastra che sovrasta il palco: questa è la scena che ospita il Tito/Giulio Cesare al Teatro Bellini di Napoli.
Due atti di uno stesso spettacolo, eppure due drammi diversi, due riscritture contemporanee delle opere di Shakespeare, che ha gettato le basi del teatro moderno, ricco di rabbia, vendetta, passione e umanità.
Michele Santeramo e Fabrizio Sinisi hanno rielaborato con inventiva e maestria rispettivamente Tito Andronico e Giulio Cesare con le regie di Gabriele Russo per il primo atto e di Andrea De Rosa per il secondo, che alla maniera del padre della letteratura inglese rimettono in scena con modernità e una sottile sagacia le dinamiche di potere che attanagliano l’animo degli uomini.
Tito Andronico, intriso di veemenza ed efferatezza, si presenta come uno tra gli scritti più sanguinari e cruenti del giovane Shakespeare toccando notevoli punte di tragicità scenica ed emotiva. La famiglia, l’onore, il potere e la vendetta si legano tra loro in maniera indissolubile portando sulla scena la tragedia di un uomo che, come ogni eroe tragico che si rispetti, lotta da solo contro i suoi demoni che siano essi in carne e ossa o fantasmi del passato. Michele Santeramo, nella sua riscrittura, fedele allo scheletro narrativo della tragedia originaria, ne scarnifica il contenuto, alleggerisce il linguaggio elegiaco dall’impronta ovidiana e si abbandona a toni più pacati, talvolta anche comici, che lo spettatore odierno comprende e condivide.
Tito interpretato da Fabrizio Ferracane è un generale romano, che dopo dieci anni di guerra contro i Goti ritorna in patria, portando con sé la regina Tamora (Martina Galletta), accompagnata dai suoi figli Chirone, Demetrio e Alabro e dal moro Aronne (Daniele Russo) guerriero spietato e rude, dal torace dipinto di pece. A differenza dell’eroe shakespeariano il Tito attuale è un uomo stanco, provato dalle sofferenze delle battaglie, che non vorrebbe altri pensieri se non quelli di un uomo normale, un uomo qualunque, desideroso di una pace che non troverà mai. Un generale nell’aspetto, con quel soprabito largo e pesante che tanto ricorda le uniformi della Seconda Guerra Mondiale, gli anfibi che stringono il pantalone attorno alle caviglie e lo zaino in spalla – i costumi sono di Chiara Aversano – ma non nella presenza: privo di forze, con la stanchezza che gli scava il volto, Tito ritorna in patria da vincitore e come primo gesto si accascia sulla poltrona che sarà il suo trono, sebbene abbia rifiutato il titolo di imperatore assegnatogli dal popolo.
L’imperativo servile «devo» riecheggia nel corso del dramma. Tito si trova a sacrificare Alabro, l’ultimo figlio di Tamora – portato sulla scena dal piccolo Leonardo Antonio Russo – perché sono i suoi figli a chiedere che i fratelli morti in battaglia siano vendicati, ma non perché egli stesso ritenga che sia giusto; affida il trono a Saturnino, figlio maggiore dell’imperatore appena deceduto, perché «non ne vuole sapere niente» nonostante il fratello Marco Andronico (Rosario Tedesco) insista perché si assecondi il volere del popolo che lo vuole a governare; concede in sposa la figlia Lavinia, perché così nessuno dovrà essergli debitore di un regno agognato da tutti e ceduto senza troppa fatica, come fosse un peso di cui doversi liberare al più presto.
Ma a sconvolgere la quiete tanto cercata saranno i drammi che si avvicenderanno in seno alla sua famiglia e sebbene, la veste dell’antieroe sia confortevole, non è quella che più gli si addice. Tamora e Aronne bramano alle sue spalle: la regina, ormai sposa dell’imperatore Saturnino (Ernesto Lama) un vero fantoccio nelle sue mani, in un monologo straziante e pungente, orchestra gli omicidi e i soprusi che saranno il nutrimento della tragedia. Si serve della perversa idea di possesso dei figli, Demetrio e Chirone che, come stridenti iene eccitate dall’odore della preda, si liberano di Bassiano, fratello di Saturnino innamorato della giovane Lavinia, e si servono del corpo di lei, offendendo il suo essere donna, violandola entrambi nello stesso momento e torturandola, tagliandole la lingua e le mani. Sangue inizia a scorrere, sangue di cui sono imbrattate le mani dei due carnefici, sangue con cui si sporcano dinanzi al pubblico e con cui imbrattano le gambe della giovane figlia di Tito, che mutilata e disperata è gettata al centro della scena, ancora derisa e umiliata dal vizio dei due principi che scherzano orrendamente sul loro atroce gesto.
Ma Lavinia – Francesca Piroi – che non potrebbe parlare, contrariamente all’archetipo shakespeariano, si alza in piedi e si ribella dal suo ruolo, libera se stessa dalla trappola in cui la tragedia l’ha rinchiusa e rinfaccia la sua condizione al padre: è colpa sua se il suo corpo è involucro di un’anima dolente, è colpa del suo disinteresse, della sua inspiegabile indolenza se la malvagità degli altri si è ritorta contro i suoi stessi figli, di cui ora si trova a piangere la morte, figurata e non; è sua la colpa di non accettare un destino che non prevede pace e normalità. Tito allo sfogo della figlia con lo sguardo fluttuante nel vuoto, seduto sulla solita poltrona, tra i denti ripete rabbiosamente «Stai zitta», perché forse le sue parole, come lame di un coltello affilato hanno colto il vero dramma della sua esistenza. Ed è allora che la tragedia entra nel vivo, altro sangue sgorga sul palcoscenico, scende, dalle cisterne sospese in aria, in tubature che in un percorso elicoidale raggiungono le botole che – come nella scena elisabettiana – si nascondono sul proscenio. La vendetta fa sentire la sua voce e Tito, riappropriatosi di un’atavica crudeltà e rassegnatosi al fatto che non potrà mai essere una persona normale, diventa un cuoco bizzarro, folle e serve alla regina Tamora un pasticcio fatto con la carne dei suoi figli.
Lo schema è quello della tragedia, l’atmosfera è quella del dramma, ma nel Tito di Santeramo e Russo c’è dell’altro, c’è la necessità di smorzare la tensione, servendosi di espedienti stranianti. Gli attori si correggono tra loro, si ricordano le battute, si scambiano consigli sull’interpretazione, sfociando in un effetto comico che ricalca la figura di un protagonista che non vorrebbe essere tale, quasi sminuendo l’aura di grandezza che accompagna la sua figura, rendendolo inconsapevolmente un uomo qualunque, con la paura di affrontare i problemi e la necessità di doverlo fare prima che ci siano danni irreparabili. I dodici attori sempre in scena, seppur “in panchina”, evocano le reminiscenze di un coro greco, si incastrano perfettamente in questo gioco di parti sconnesse, intervengono in veste di suggeritori e subito dopo si immedesimano intensamente nei personaggi di cui portano il nome. Un’ora per condensare magistralmente cinque atti di incredibile intensità emotiva.
Fabrizio Sinisi riscrive Giulio Cesare, una vera e propria disquisizione tra storia e filosofia, una lotta tra l’idea di patria e potere che sconvolge le sorti di un popolo tanto grande come quello della Roma repubblicana e che porta con sé una riflessione profonda e accurata sui concetti di dominio e di libertà. Cesare è un comandante, un uomo che ha sovvertito le sorti di Roma, che le ha dato lustro rafforzando il suo nome, che l’ha resa grande; un uomo astuto, ma egemone, tanto da diventare un tiranno: è attorno a costui che Shakespeare costruisce un dramma che racconti della sua morte e riveli le dinamiche psicologiche che si celano nella politica.
Andrea De Rosa elimina l’aspetto narrativo e fa in modo che i personaggi sulla scena, ovvero i tre congiurati Bruto, Cassio e Casca, siano interpreti di una vera e propria apologia, con cui spiegano i motivi alla base dell’efferato assassinio. La scena è buia, fatta eccezione per una luce fredda che illumina la scultura di un corpo senza vita posto al centro del palco, mentre dall’alto scende un enorme sacco, che presagisce l’entrata in scena del primo attore. Con un passo lento, deciso e lo sguardo rivolto verso il pubblico, costui si ferma e d’improvviso con un gesto di violenza e rabbia sferra ripetute coltellate al ventre del sacco da cui cade velocemente una gran quantità di terreno. Presa una pala in mano, quello che poi scopriremo essere Marco Antonio (Rosario Tedesco), inizia a coprire il corpo che giace sul suolo, in un movimento continuo e ripetitivo, a tratti ossessivo prende il terreno alle sue spalle e lo getta sulla salma di Cesare.
Uno alla volta, dalle botole sul proscenio, escono, come anime del decimo canto dell’Inferno dantesco, i tre congiurati. Bruto, nelle sembianze del giovane Isacco Venturini, confessa a gran voce di essere stato lui a uccidere Cesare, battendosi con veemenza sul petto, in segno di disperata colpevolezza; a lui succede Cassio interpretato da Daniele Russo, colui che ha ordito l’intera cospirazione, che con tono suadente spiega di aver compiuto un atto necessario, indispensabile per salvare il popolo da quello che di lì a poco tempo sarebbe diventato un despota. L’ultimo a prendere la parola è Casca (Nicola Ciaffoni) che interpreta perfettamente il ruolo di un uomo rimasto nell’ombra, che in nome di un’apparente giustizia si affianca ai grandi pur di ritagliarsi uno spazio, una riconoscibilità, con il suo fare fremente, ansioso e talvolta venato di una rabbia nascosta.
L’unico a mostrare rimorso per il gesto commesso è Bruto che decide di concedere una degna sepoltura a quello che, in fondo, era il suo patrigno. Alzatosi e recatosi sul fondo del palcoscenico, inizia il suo monologo che attraversa una climax incalzante. Più cerca di redimersi dinanzi alla gente che assiste al comizio più una forza attrattiva e violenta lo spinge sulle mura alle sue spalle; come sospinto da un vento feroce vi si scaglia contro fino a cadere ripetutamente a terra. Ed è in questo momento che Marco Antonio, fino a quel momento silente ascoltatore, prende la parola.
Scende agilmente in platea e parla al popolo, con convinzione e pacatezza, parla del suo amico Cesare, delle sue gesta, della sua grandezza sotto gli occhi torvi di Cassio e Casca, mentre Bruto si trova sofferente alle sue spalle. D’improvviso il tono del tribuno cambia, prende un ritmo veloce e incalzante, come la musica che lo accompagna mentre i tre congiurati, ritti in piedi, iniziano una marcia con in mano l’asta di un microfono, un immaginario mitra: inizia la cronaca della battaglia di Filippi. Come degli esaltati speaker radiofonici, con tanto di microfono alla mano, Antonio, Cassio e Casca raccontano della nefasta battaglia, che diventa la descrizione di un’unica guerra in cui antichità e modernità si frappongono, si mischiano confondendosi. Le bombe, gli acidi, le morti soffocanti, i gas, le urla, il terrore del popolo: episodi raccontati con foga e con ironico godimento, mentre Bruto, ormai soldato qualunque, continua a marciare, senza sosta, provocando in chi guarda un’immediata sensazione di stanchezza, di sopportazione inverosimile, tanto da sospirare nel momento in cui finita la battaglia pone fine alla marcia. Una riflessione conclude lo spettacolo, la riflessione di Antonio e quella di Bruto sulla legittimità di uccidere il tiranno.
L’universalità delle opere di Shakespeare si legge chiaramente in queste due riletture che, seppure ambientate in un contesto cronologico ben preciso, sembrano sospese in un tempo unico, unitario in cui le stesse dinamiche, individuali e collettive, continuano sempre a ripetersi.
TITO/GIULIO CESARE
2 riscritture originali da Shakespeare
ATTO PRIMO
TITO
riscrittura Michele Santeramo
con
Roberto Caccioppoli Bassiano
Antimo Casertano Lucio
Fabrizio Ferracane Tito
Martina Galletta Tamora
Ernesto Lama Saturino
Daniele Marino Demetrio
Francesca Piroi Lavinia
Daniele Russo Aronne
Leonardo Antonio Russo Alabro
Filippo Scotti Marzio
Rosario Tedesco Marco
Isacco Venturini/Andrea Sorrentino Chirone
regia Gabriele Russo
ATTO SECONDO
GIULIO CESARE. Uccidere il tiranno
riscrittura Fabrizio Sinisi
con
Nicola Ciaffoni Casca
Daniele Russo Cassio
Rosario Tedesco Antonio
Isacco Venturini/Andrea Sorrentino Bruto
regia Andrea De Rosa
scene Francesco Esposito
costumi Chiara Aversano
luci Salvatore Palladino, Gianni Caccia
progetto sonoro Alessio Foglia, G.U.P. Alcaro
assistente scenografo Lucia Imperato
direttore di allestimento Antonio Verde
capo macchinista Generoso Ciociola
aiuto fonico Nicolò Tacconella
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Teatro Bellini, Napoli
13/24 marzo 2019
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