LAURA NOVELLI | Risale a una quindicina di anni fa la messinscena di Un nemico del popolo di Henrik Ibsen (1883) diretta da Marco Sciaccaluga per lo Stabile di Genova e interpretata da Eros Pagni e Gabriele Lavia.
Ricordo che rimasi molto colpita dalla visione di quel lavoro, costruito sulla base di un adattamento del testo – tra i più “politici” dell’autore norvegese insieme a quelli che compongono l’ultima tetralogia della sua produzione – fatto da un Arthur Miller ancora giovane ma già attento osservatore delle contraddizioni sociali statunitensi. Contraddizioni, si dà il caso, comuni a luoghi, popoli, momenti storici diversi e dunque sempre attuali. Verrebbe voglia, anzi, di definirle profeticamente attuali. I temi trattati vanno, infatti, dalla corruzione a sfondo ambientale (proprio così), allo scontro etico tra scelte politiche e buon senso, governabilità delle masse e miopia dell’opinione pubblica, interessi personalistici e sordità di una maggioranza troppo spesso prona al potere e al guadagno, fino al nodo, qui cruciale, del ruolo dell’informazione e della stampa. Tutti argomenti oggi quanto mai nevralgici, tanto più se inquadrati nella sgangherata e inquietante stagione politica che sta vivendo la nostra Repubblica.
Parte, non a caso, proprio da questa incontrovertibile energia di modernità l’ironica lettura dell’opera che Massimo Popolizio (regista e interprete) presenta in questi giorni al Teatro Argentina di Roma su traduzione di Luigi Squarzina. Lo spettacolo, debuttato in prima assoluta, sposta l’azione dell’opera in una non meglio definita America di inizio Novecento: una provincia agricola in crescita economica dove sembra ancora lì da venire la grande depressione del ’29 e dove giungono echi blues (cura il suono Maurizio Capitini) in odore di retaggio schiavista.
La prima scena già ci parla di questo slittamento: nelle belle luci ambrate di Luigi Biondi un attore/narratore di colore si muove e parla quasi ballando mentre su un grande schermo scorrono immagini di campagna, mulini, acqua (intarsi video curati da Lorenzo Bruno e Igor Renzetti). L’impianto scenico è esile e l’allusione alla piccola comunità in cui si svolge la vicenda non ha nulla di realistico. D’altronde, non c’è alcun bisogno di connotare la geografia di un luogo assurto simbolicamente a teatro di uno scandalo che nel suo epilogo suona come una resa alla folle e immorale ragione dei più.
La trama dell’opera è ben nota: il dottor Thomas Stockmann, medico che presiede un impianto termale da cui dipende la floridezza economica della cittadina dove abita con la moglie e la figlia, scopre delle infiltrazioni batteriche nelle acque curative e vorrebbe denunciare la cosa pubblicando un articolo nel giornale locale. Suo fratello Peter, sindaco della stessa comunità, da uomo di potere e di profitto quale è, si oppone con ogni mezzo alla verità provocando un ribaltamento quasi surreale dei fatti. Alla fine, il povero medico verrà licenziato, additato e abbandonato da tutti i suoi concittadini. Bandito come un cane rabbioso. Uno sconfitto. Un nemico del popolo, appunto.
La tessitura drammaturgica si declina dunque come un serrato scontro di visioni esistenziali e politiche, nonché familiari e personali, che deve necessariamente tradursi in un match attoriale a due. In questa bella regia di Popolizio (reduce dall’acclarato successo di Ragazzi di vita), l’attore riserva per sé il ruolo del dottor Stockmann, al quale regala una grande prova in levare, carica di punte istrioniche, di note satirico/grottesche e capace di innumerevoli passaggi emotivi, di sfumature sottili, soprattutto nell’ultima parte del lavoro. Il regista affida poi la parte del sindaco/fratello a una Maria Paiato in abiti maschili semplicemente magistrale: capelli grigio/bianchi tagliati corti, abito scuro con cappello e bastone, prossemica mai caricaturale, l’attrice restituisce in modo sublime l’immagine di un uomo cinico, calcolatore, corrotto, lucidamente determinato e lo fa – sembrerebbe un paradosso – con una leggerezza mai sopra le righe, mai fuori misura. In alcuni passaggi mi ha ricordato il cattivo Shui-Ta interpretato da Mariangela Melato ne L’anima buona del Sezuan di Brecht diretto da Elio de Capitani e Ferdinando Bruni nel 2009 (opera anch’esso profeticamente attualissima).
Intorno a loro, agiscono poi personaggi di ogni sorta: i meschini giornalisti de La Voce del Popolo, il rappresentante del ceto medio, il suocero del medico, tutti volutamente caricati e troppo macchiettistici. Mentre ottimamente tratteggiate risultano sia la solida moglie di Francesca Ciocchetti sia la ribelle figlia di Maria Laila Fernandez.
Una particolare nota di merito va poi all’impianto scenico del lavoro (lo firma Marco Rossi): pareti, sedie e tavoli di metallo spostati a vista che non solo rendono estremamente mosso il ritmo del lavoro conferendogli compattezza ma che sembrerebbero voler alludere ad alcune storiche regie di Luca Ronconi. In particolare, il Re Lear del ’94 e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana del ’95, qui evocato nella scena della caduta finale della parete di sinistra. Due riferimenti, a ben vedere, non solo formali ma sostanziali, visto che in entrambi quei testi si parla di legittimità del potere, corruzione, omertà, convenienza singola versus convenienza comune.
Davvero ben riuscita è inoltre l’intera sequenza del comizio cittadino, amplificato dalla presenza di altoparlanti in sala che rimandano voci e grida dalla platea e dai palchetti.
Sarà proprio dopo questo devastante confronto con la “maggioranza compatta”, con la comunità, con il popolo («solo perché esiste una massa di organismi che ha forma umana, non si diventa necessariamente popolo. Essere popolo è un traguardo che bisogna conquistarsi»), che il giusto si trasformerà in capro espiatorio. Eccoci ormai all’epilogo: vilipeso da chi prima lo rispettava, il dottor Stockmann/Popolizio butta la sua lacera giacca nuova a terra, indossa il cappello, si volta verso il fondo del palcoscenico e, nella luce ocra che lo accompagna, si avvia verso l’uscita.
E Ibsen si confonde inevitabilmente con Beckett.
UN NEMICO DEL POPOLO
di Henrik Ibsen
traduzione Luigi Squarzina
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio e Maria Paiato
e con Tommaso Cardarelli, Francesca Ciocchetti, Martin Chishimba
Maria Laila Fernandez, Paolo Musio, Michele Nani, Francesco Bolo Rossini
e Dario Battaglia, Cosimo Frascella, Alessandro Minati, Duilio Paciello
Gabriele Zecchiaroli
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Maurizio Capitini
video Lorenzo Bruno e Igor Renzetti
asistente alla regia Giacomo Bisordi
foto di Giuseppe Distefano
produzione Teatro Di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Argentina, Roma
20 marzo/ 28 aprile 2019
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