SILVIA ALBANESE | Milano, 06.04.19
Il 23 marzo faccio ritorno a Pisa. Un viaggio nella più antica delle mie città radice, quella in cui sono nata. Qui racconto il mio incontro con Seeking Unicorns, il primo solo di Chiara Bersani, adattamento di Gentle Unicorn per spazi non teatrali, creato con Fra De Isabella (musiche), Valeria Foti (luci) e Giulia Traversi (cura).
Ho ringraziato Giulia Traversi per le cose belle a cui sta dando vita: la sua rassegna Maps to the stars, chiara citazione del film di David Cronenberg, vede quel magico luogo che è lo storico cinema Lumière di Pisa riempirsi di corpi, storie e immaginari rappresentativi del contemporaneo in Italia. Per realizzare tutto ciò, Giulia collabora con Andrea Vescio e Gabriele De Luca, ai quali sono affidati rispettivamente il coordinamento artistico e l’organizzazione; insieme, i tre fanno esplodere costellazioni in città e nei dintorni con TheThing Promozione Eventi.
Giulia ha composto questa piccola e preziosa rassegna invitando Danio Manfredini, Cosmesi, Silvia Calderoni (nel prossimo e ultimo appuntamento il 13 aprile) e Chiara Bersani, con cui collabora ormai da anni, e che è la vincitrice del Premio Ubu 2018 come miglior attrice Under 35. Io l’ho vista per la prima volta in scena nel 2011, durante l’edizione zero della Nid Platform a Torino: era sul palcoscenico del Teatro Gobetti con Remo Ramponi in quell’incantesimo scenico che è Your girl, di Alessandro Sciarroni. Fu un colpo di fulmine.
Mentre cammino in Borgo Stretto, muovendomi tra i fantasmi delle esistenze possibili nella città della mia adolescenza, incontro Melanie Gliozzi, un’altra delle presenze più speciali e meno visibili del mondo teatrale contemporaneo che io conosca: un’amica dai tempi del mio passaggio a Santarcangelo (2014), una grande conoscitrice e lavoratrice dello spettacolo. Con Melanie arrivo al Lumière.
Leggo il foglio di sala: è una lettera firmata C., Chiara. Questa lettera mi colloca all’interno di una comunità, faccio parte di un voi, di un collettivo composto da coloro che sono venuti a vedere lo spettacolo. Non li chiamo spettatori perché mi sembrerebbe di usare un termine astratto, e invece questa lettera ci rende tutti molto concreti, presenti, e vicini. Situa il nostro arrivo, risvegliando la nostra presenza nel qui e ora del caldo marzo pisano, dice che non siamo gli unici a essere impazienti, ad avere atteso, perché anche C. ci ha attesi e ancora ci attende in sala, col cuore in gola. Il mio cuore è stretto dalle circostanze, aspetto che l’incontro lo allarghi. Penso che ho proprio bisogno di essere accolta, vista, abbracciata, e sono felice che questa lettera me lo prometta, sono trepidante per la promessa di questa attesa e ho la speranza di un incontro che vada al di là della scena. Potrò invitarla da qualche parte, mettere da parte la mia fragilità ed espormi a lei. Queste sono le promesse che leggo, e che attendo.
Arriviamo da un’altra dimensione, siamo in tanti; entriamo nel cinema, oltre la tenda di velluto che ci separa dalla sala. All’interno c’è il rettangolo di un tappeto danza bianco, ci sono sedie e cuscini disposti a ferro di cavallo intorno al tappeto. Uno dei lati corti del rettangolo è lasciato libero e lì, dal bianco si staglia il corpo della performer, che indossa un morbido costume anch’esso bianco, che le lascia braccia e gambe, mani e piedi scoperti; i capelli castani sono raccolti in una coda. Ad alcuni passi da lei c’è una tromba, unico oggetto in scena.
Mentre il mio sguardo incontra il corpo sento le parole «somebody like you» (da Nicholas Savage, Blow me away). Ecco, quel corpo e tutti gli altri corpi intorno a me, sono qualcuno come me. Improvvisamente divento testimone di un profondo movimento che si offre al mio sguardo conservando la qualità di qualcosa di intimo: quel piccolo corpo si muove con piacere a partire da un punto molto interno. Mi sembra che il movimento parta dal cuore, dalle emozioni che risalgono, oppure scendono, come invisibili rami interni che lo abitano raggiungendo tutte le direzioni, occupando tutti gli spazi. Il sottile piacere di quel movimento diventa anche il mio. Gli occhi si aprono.
Camminando sulle ginocchia e sulle mani chiuse a pugno, il delicato corpo comincia un percorso di attraversamento dello spazio, a partire dal lato lungo del rettangolo, esattamente di fronte a quello da cui io osservo.
«Il nostro andare è una caduta continuamente inibita» scrisse Arthur Schopenauer riferendosi all’andatura bipede dell’essere umano: la specificità del corpo di Chiara Bersani – affetto da osteogenesi imperfetta – richiede adesso che la locomozione, qualora come in questo caso liberata dall’ausilio della sedia a rotelle, avvenga sulle quattro zampe. Una necessità dovuta a una “non conformità”, che permette a questo corpo di liberarsi dal costitutivo sbilanciamento dell’essere umano, dalla fragilità dell’essere bipede e che avvicina la percezione di questo corpo a una creatura mitologica, enigma della Sfinge, o Unicorno.
Il ritmo della camminata ha una sua leggera e uniforme costanza, e il percorso prevede delle esitazioni, oltre che delle soste; le esitazioni sono delle aperture, delle possibilità, delle opportunità: le opportunità di un incontro, di guardare la performer occhi negli occhi. Dalla mia posizione, l’incontro e le vicinanze che osservo diventano quello che desidero, l’esperienza che a mia volta spero di vivere.
Ciò a cui assisto mi ricorda che affinché un nuovo incontro si compia, un distacco deve necessariamente accadere.
Avanzando, lascio sempre qualcosa dietro di me. Detriti, residui.
Il percorso in avanti che compio osservando e avanzando con la performer, è un percorso che procede nella direzione del tempo, è un percorso che genera alle mie spalle un addio, una separazione, la percezione del passato. Il corpo non torna indietro: rallenta, esita, in tre momenti addirittura sosta nello spazio, ma continua ad avanzare, a procedere, seguendo la sua mappa, la traiettoria chiara e definita che disegna linee invisibili nello spazio bianco.
La bocca si apre,
il piede si solleva portando con sé le dita
gli incontri si susseguono.
Dentro di me si muove la danza di un’incertezza, la danza di un desiderio che esita a formarsi con chiarezza, la danza di un’attesa. E a ogni nuovo, intimo incontro a cui assisto, si accende in me un piccolo dolore, il dolore per un mancato incontro, mi sento esclusa.
Il cammino ha ormai raggiunto il lato corto del rettangolo, adesso il volto della performer è incredibilmente vicino a quello di uno spettatore, i due sono occhi negli occhi. Poi il corpo che si muove a quattro zampe è esattamente di fronte a me, e dalla mia sedia posso vedere quegli occhi scuri e grandi, occhi di unicorno. Li vedo, la vedo, ma non riesco a dire se sono vista.
Sono occhi che non mi è dato incontrare adesso lo so per certo, perché la traiettoria cambia, e il percorso taglia il rettangolo secondo una diagonale.
La sosta che adesso si compie è un momento di distensione per le braccia che si sollevano con i pugni ancora chiusi, di distensione per le dita quando i pugni si aprono, e dei capelli, che vengono sciolti. L’indice della mano destra ha una sua danza, mi pare che disegni nuvole, soffici e invisibili. Dalla mia sedia, dalla mia dimensione di invitata alla festa, osservo la sua distensione che vorrei fosse anche la mia, invece resto tesa, in attesa, con la sensazione di aver perso qualcosa, o di essere esclusa da qualcosa.
E poi scopro che per qualcuno quell’indice avrebbe potuto essere un richiamo, un invito, come a dire “Vieni”?
Poi il cammino riprende, senza ulteriori esitazioni e va verso un preciso incontro, un’ultima sosta: la performer soffia nella tromba producendo un suono che diventa un richiamo e genera un dialogo, perché un’altra tromba risponde, da una delle poltrone di velluto del cinema Lumière. E poi altri tre fiati rispondono, due sax e un clarinetto. Ognuna di queste voci è la sorpresa per la scoperta di una presenza che in realtà è sempre stata lì con te, solo che non te ne sei accorto prima. Sono voci musicali che hanno il potere di accedere allo spazio bianco, entrarci, raggiungere questo corpo un po’ magico, avvicinarsi a esso, abitare la sua stessa dimensione.
E io? Resto ferma al mio posto, nel buio della mia sedia, con tutti gli altri; qualcuno custodisce il segreto di un incontro, occhi negli occhi. Io no.
Lo spettacolo è finito, e ho la certezza di aver perso qualcosa. Il tempo prosegue sulla sua linea retta, non posso tornare indietro per sedermi su un cuscino e godere dello sguardo, della possibilità di vedere e di essere vista. Le artiste ci parlano, adesso, in questo momento di talk, e scopro che quella tromba era un richiamo anche per me, che nell’intenzione dell’artista c’era anche la volontà di convocare ogni persona sul tappeto bianco, vicino a lei. In molti avrebbero voluto raggiungerla, in molti è rimasto il desiderio di questa vicinanza che non si è compiuta. Perché? Perché questo confine invisibile tra lei e noi è rimasto così forte e invalicabile? Chi, come, cosa costruisce il confine? L’altro, le circostanze, oppure io? Provo ad avvicinare Chiara dopo la performance, ma non ci riesco: l’incontro non si compie neanche dopo lo spettacolo, neanche dopo il talk. Si è rotto il confine della parete invisibile, ma lei rimane inaccessibile per me. Una creatura magica che continuo a osservare da lontano, una creatura che esponendo la sua fragilità mi mostra la sua incredibile forza, mentre lascia scoperte le ferite della mia, di fragilità.
Nell’attesa del prossimo incontro, qui le linee guida del diario coreografico.