LAURA NOVELLI | Un uomo ormai in là con gli anni siede, trasandato e nervoso, su una poltrona al centro della scena. Accanto a lui i volumi di un’enciclopedia tecnico-scientifica, una bottiglia di Glen Grant e pochi altri oggetti. Il suo spazio, chiuso e privato, è separato dal “fuori” attraverso una tenda leggera fatta di quel tessuto termico solitamente usato per coprire i migranti subito dopo lo sbarco. C’è un microfono appeso su questa parete luminosa e fragile che sembra custodire una solitudine tramutatasi in fobia degli altri, del passato, del mondo, di se stessi, della morte. Ed è proprio battendo forte contro quel microfono che la moglie e il figlio (presumibilmente entrambi morti) gli bussano per cercare di entrare. Inizia così, tra il monologare astioso e dolorante di un recluso disperato, e l’insistenza comunicativa di due fantasmi relegati sul pianerottolo, Stranieri di Antonio Tarantino, presentato qualche sera fa all’Argot Studio di Roma da Gianluca Merolli con Francesco Biscione, Paola Sambo e lo stesso regista per interpreti (tutti davvero straordinari).

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Si tratta di un testo molto duro, ma altrettanto e luminosamente vero, di cui è impossibile non ricordare l’intenso allestimento del Teatro delle Albe (era il 2008) e che l’autore/pittore bolzanino scrisse nel 2000 dopo la morte del fratello. Dunque, un faccia a faccia con il concetto di ‘altro’, con l’esperienza del lutto, con la scomparsa dei cari. Di quelli che crediamo o abbiamo creduto di conoscere: forse, in realtà, i veri stranieri che cerchiamo maldestramente di amare illudendoci di poter smussare le diversità o di poter entrare nel mistero delle loro anime. Gli altri – gli stranieri “barbari” venuti da lontano – sono in realtà e in definitiva solo il bersaglio di una paura politica, sociale e umana ben più ancestrale. Antropologica, direi.

Non è, d’altronde, un caso che l’opera sia stata pubblicata dalla Ubulibri nel 2006 in un volume che raccoglie la quadrilogia composta da La casa di Ramallah, Conversazioni, Stranieri e La Pace; quadrilogia il cui tema centrale è il conflitto arabo-israeliano – affrontato con un piglio sarcasticamente cinico – e all’interno della quale la pièce vista all’Argot propone un’arguta riflessione sull’ambiguità che divide sfera privata da sfera sociale, coscienza di sé e capacità di amare veramente gli altri, illusione di immortalità – quanto di più attuale? – e inesorabile accettazione dell’assenza, del finito.

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In questa intelligente lettura registica di Merolli, sostenuta da una semplicità scenografica quasi naïf e da un accorto gioco di luci firmato da Marco Macrini, il barricato in casa (Biscione) delira furioso come fosse una bestia in gabbia. Ondeggiando tra ricordi e invettive, risulta quasi sopra le righe, fin troppo stizzito della sua stessa prigionia (una prigionia tutta mentale) ma proprio per questo ci muove a pietà. Se la prende con il figlio che ha studiato filosofia laureandosi con una tesi su Heidegger – «roba tedesca la cultura» –, con la nuora che non sa cucinare, con i coinquilini che non pagano il condominio, con gli immigrati che vengono a rompere le scatole nel nostro Paese. Ondeggiando tra ricordi e invettive ondeggia pure linguisticamente: nel suo dire spezzettato e breve, l’accento marcatamente nordico cede spesso il passo a un partenopeo più tragico, più melò, quasi a voler trascinare sul registro della parola (il teatro) la sua molteplice paura di esistere e consistere, come cittadino e come Uomo.

L’interprete regala al personaggio una prova eccellente: una nevrosi in cui la rabbia e l’astio corrosivo si alternano a toni malinconici e nostalgici. Lui non apre a nessuno. Lui ha tutto ciò che gli serve. La posta non la ritira. La finestra è serrata. La porta blindata. Non apre e urla, urla, urla, malgrado i due ospiti alla porta continuino a bussare, a chiamarlo, a picchiettare il microfono. Viene la voglia di rileggere La stanza di Harold Pinter, testo d’esordio del ’57 popolato dalle manie claustrofobiche di Rose e Ted Hudd. Viene voglia di riattraversare tutte quelle opere in cui il drammaturgo inglese accosta insieme fantasmi e personaggi vivi, perché in fondo il tempo esiste solo nella misura in cui lo avvertono i nostri pensieri, i nostri ricordi. E anche la capacità di amare fa sempre giocoforza i conti con questa dimensione interiore della memoria.

Madre e figlio intanto restano fuori, in attesa. Tarantino riserva loro una scrittura più lineare, più dialogica, quasi un catalogo delle memorie intime che ogni tanto si tinge di filosofia, talora di dolori lunghi una vita. Su quel pianerottolo immaginario la donna e il giovane uomo si siedono a mangiare qualcosa, lei fuma una sigaretta. Parlano. Si abbracciano. Lei ha i capelli bianchi, un trench stretto in vita e quello stile recitativo della Sambo dove si addensano, come in numerose belle prove precedenti, corde ironiche a virate tremendamente serie, espressioni stralunate a stati d’animo vibranti come farfalle. Ci sono tutti i segni di un matrimonio infelice sul suo volto, nel suo dire. Il figlio interpretato da Merolli (anche lui molto bravo e incisivo) funziona invece da ago della bilancia. Vivo nei deliri paterni, sembra quasi un ragionatore pirandelliano, un perno di affetti tenuti in piedi per miracolo. Un equilibrista dei sentimenti.

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Poi inizia a piovere. La scena si riempie di acqua. Il diluvio universale è appena iniziato. Quel teatrino di carta crolla. Nulla è più dentro e nulla è più fuori. Solo acqua. Si fa forte il bisogno di ricongiungersi. Di vestirsi da sposi. Di ballare ancora una volta insieme sulle note di Strangers in the night (eseguita dal vivo dallo stesso regista). Estranei per una vita, ora non sono più né qui né lì. Ma sono insieme. E sembrerebbe che solo la morte possa tacitare la paura di sentirsi stranieri. Così come quella, contraria ma identica, di abbracciare gli stranieri.

 

STRANIERI 

di Antonio Tarantino
regia Gianluca Merolli
con Francesco Biscione, Paola Sambo e Gianluca Merolli
scene Paola Castrignanò
costumi Domitilla Giuliano
musiche Luca Longobardi
luci Marco Macriniv
assistente alla regia Luca Carbone
organizzazione e foto Pino Le Pera
produzione Andrea Schiavo / H501
con l’ospitalità in residenza di Settimo Cielo / Teatro di Arsoli

Teatro Argot, Roma
3-7 aprile 2019