ELENA SCOLARI | Noi siamo quello che facciamo. E quello che facciamo è anche quello che diciamo. E come lo diciamo. Per questo l’attenzione alle parole mi è particolarmente cara, non solo perché ci lavoro ma perché sono convinta che la complessità della lingua corrisponda a quella del pensiero: se appiattiamo la nostra comunicazione finiremo (ed è già ampiamente successo, ahinoi!) per appiattire anche ciò che pensiamo. A furia di semplificare non siamo più in grado di smontare un problema complesso e, quindi, di trovarne la/le soluzione/i.
Non è solo questione di “parlare bene”, come diceva la mia nonna, o come “un libro stampato”, è questione di saper maneggiare le tessere della lingua che ci permettono di costruire una dialettica, di fronteggiare un avversario in una conversazione, di affascinare chi ci sta di fronte con la capacità di far vivere quello che diciamo, costruendo mondi e significati. Le subordinate non sono nemici, basta saperle governare!
Ecco perché apprezzo i drammaturghi che scrivono testi belli, compositi, ricchi, problematici, affrontando anche il rischio delle storie parallele nell’incastro drammaturgico, come Bruno Fornasari, anche regista.
In La scuola delle scimmie (produzione Filodrammatici 2018, nella stagione dell’Elfo Puccini 2018/19), ci sono infatti due storie che si svolgono anche in tempi diversi: la storia del prof. John Scopes (Luigi Aquilino, sempre appassionato e capace di far vibrare una sincera preoccupazione) che nel 1925 in una sconosciuta cittadina del Tennessee subisce un processo per aver insegnato la teoria evoluzionistica di Charles Darwin nelle scuole, violando la legge d’allora; e la storia di un professore di oggi, orfano di un fratello fattosi esplodere dopo aver sposato la causa degli estremisti islamici e alle prese con una preside rigida e manageriale.
La parte, diciamo così, storica, è più risolta rispetto a quella contemporanea, e del resto l’argomento terrorismo è difficile e scivoloso, forse perché ancora troppo vicino a noi per poterne, artisticamente, dire qualcosa di concluso; è però soprattutto più pulita, drammaturgicamente. Quattro sono le figure in gioco: Scopes, i suoi genitori, la fidanzata e un giornalista, numero che permette movimento ma consente un certo ordine.
Troppi personaggi invece, a mio avviso, affollano i giorni nostri: oltre al professore, Tommaso Amadio, preciso come sempre ma un po’ incline al nervosismo, c’è la succitata preside, anzi dirigente scolastica, Sara Bertelà, terribilmente compresa nel suo essere dura ma le cui migliori qualità emergono davvero con la misurata e sapiente ironia della madre di Scopes (alcuni attori hanno doppio ruolo); c’è la ex moglie dell’insegnante definita ‘l’artista’, Silvia Lorenzo, ambigua e molto in posa; c’è lo zio di Amadio, Giancarlo Previati, perfetto nel suo rozzo disincanto e sfacciato a sufficienza per conquistarci in un attimo (recita anche il ruolo del padre di Scopes). Nel buon equilibrio generale spiccano nel cast Previati ed Emanuele Arrigazzi, nei panni del giornalista anni ’20, sornione e molto hard-boiled, e in quelli di uno sfatto e sboccato padre di adolescente nella parte dei giorni nostri, a cui si aggiunge pure sua figlia, Camilla Pastorello, allieva squillante e provocante del “prof” e anche fidanzata in Tennessee.
Il fatto è che alcuni di questi personaggi non risultano indispensabili nell’economia complessiva, anzi appesantiscono un po’ il tutto con qualche ripetitività, anche perché troppo calcati nei loro tratti: la preside è troppo stronza, la ragazzina troppo Lolita, la moglie troppo parodia delle donne intellettuali di sinistra che portano i pantaloni larghi. I ruoli maschili invece, con la bellissima eccezione della mamma del professor Scopes, sono disegnati meglio, sono più sfaccettati, più credibili e più intelligenti.
Alleggerire la trama di qualche accadimento superfluo avrebbe anche tolto di mezzo un paio di litigi, con buona pace della passione che abbiamo per la le conversazioni perfide, che, se insistite, perdono la lama. Alcuni fatti che vengono mostrati potevano forse essere accennati descrivendoli, volendoli proprio conservare. Per esempio la tresca tra professore e allieva, l’indecisione sentimentale tra i due coniugi confusi, la vicenda del video sfruttato…
Questo avrebbe forse lasciato tempo e modo per un maggiore affondo nelle difficoltà che abbiamo oggi a capire chi fa scelte estreme e violente (come il fratello diventato foreign fighter), per noi quasi incomprensibili e che ci pongono dubbi sulla qualità della nostra evoluzione, ci fanno riflettere sulla caratteristica animale che abbiamo per certi versi dimenticato, nella nostra forzata urbanizzazione, ma che sta forse riemergendo in istinti selvatici e indomabili, pericolosi.
Quando lo spettacolo è a Dayton siamo di fronte a qualcosa di compiuto, e la complessità dei pensieri è ben chiara, prismatica ma limpida. Il confronto tra religione, credenza dogmatica e scienza assume corpo nelle battute di tutti. Rimangono in mente le parole di Scopes che in galera in attesa del processo dice «fa paura chi ragiona». Oggi, più che far paura, annoia, purtroppo.
Quando rientriamo nel blocco attuale quello che appare più evidente è una molteplicità di prospettive, tanti interessi personali e pochi princìpi da seguire; la contrapposizione è tra le questioni private dei singoli e la spinta (del professore) verso idee che riguardano invece la collettività.
Lo zio ha fatto il ’68 e il suo saldo rivoluzionario è a posto. «Vado a lavarmi le mani, sono sporche», dice il nipote, »Bah. Io ho fatto il ’68 e ho messo la bocca su cose molto più sporche», risponde lo zio barista.
Il ritmo del lavoro è indiavolato, la regia non lascia mai gli attori, li occupa anche con molti cambi di scena e spostamenti di arredi a vista; non sono certa che far loro indossare maschere di scimmia in questi passaggi sia più di una trovata pop. Certo è però il successo nell’instillare un germe critico nella platea, che ho sentito parlottare animatamente sugli argomenti de La scuola. Questo germe non si avvantaggia granché dei video e dell’introduzione metateatrale che apre lo spettacolo, di per sé molteplice e variegato grazie a una scrittura viva che tiene costantemente lo spettatore dentro ai dialoghi. Fornasari deve credere più nelle proprie qualità di autore, non bisognose di orpelli.
Chissà se c’era qualche creazionista in sala…
LA SCUOLA DELLE SCIMMIE
testo e regia Bruno Fornasari
scene e costumi Erika Carretta
movimenti coreografici Marta Belloni
luci Fabrizio Visconti
video Francesco Frongia
con Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Luigi Aquilino, Sara Bertelà, Silvia Lorenzo, Camilla Pistorello, Giancarlo Previati
assistente scene e costumi Federica Pellati
assistenti alla regia Gaia Carmagnani, Ilaria Longo
produzione Teatro Filodrammatici di Milano con il sostegno di Regione Lombardia e Fondazione Cariplo – Progetto Next 2017/2018
Teatro Elfo Puccini, Milano
7 aprile 2019
[…] via Cosa si impara nella giungla del sapere? La scuola delle scimmie di Fornasari — PAC magazine di ar… […]