LAURA BEVIONE | La XXIII edizione del festival-vetrina del teatro destinato alle nuove generazioni ha ospitato, nella sua prima giornata, allestimenti eterogenei, per il linguaggio utilizzato quanto per contenuti e obiettivi.
Si inizia con lo spettacolo che Eleonora Frida Mino – artista del teatro e avvocato – dedica a Emanuela Loi, unica donna della scorta di Paolo Borsellino e prima poliziotta a morire in servizio. Il lavoro, liberamente ispirato al libro per ragazzi Io, Emanuela, agente della scorta di Paolo Borsellino, di Annalisa Strada, mira a narrare la vicenda di una ragazza “normale”, che ama la lavanda e i balli tradizionali della sua terra d’origine, la Sardegna; una giovane donna che avrebbe voluto fare la maestra e si ritrova quasi per caso in accademia di polizia a Trieste e, poi, nella Sicilia soffocata dal dominio di quei Corleonesi che neppure il maxi-processo in corso pare indebolire.
La bontà d’ispirazione e d’intenzione di questo Emanuela Loi – La ragazza della scorta di Borsellino è evidente e sincera ma, purtroppo, si infrange contro un’altrettanto palese difficoltà a maneggiare una materia tanto complessa che si presta facilmente a tramutarsi in didascalica lezione sulla recentissima storia del nostro paese. L’espediente di far raccontare la vicenda della protagonista eponima a una ragazzina di dieci anni, Flo, la cui zia sarebbe stata compagna in accademia di Emanuela e che vuole diventare lei stessa poliziotta, risulta piuttosto artificiosa e mal amalgamata alla rievocazione della troppo breve vita della giovane donna. Si avvertono forzatura e grumi drammaturgici irrisolti, malgrado il ricorso a oggetti scenici interessanti quali il ciondolo segna-tempo indossato dall’attrice-autrice e la clessidra, entrambi efficaci nell’esplicitare l’inesorabile procedere di eventi decisi da un destino crudele e infame che neppure il sacrificio di uomini e donne coraggiosi pare siano stati in grado di modificare.
Una bella intuizione che, così come l’entusiasmo e il reale desiderio di raccontare la mafia e coloro che, appunto, hanno scelto di affrontarla a testa alta, non sono tuttavia sufficienti a dare reale e sostanziale efficacia a una spettacolo affogato da un eccesso di didascalismo.
E, pur ponendosi un obiettivo esplicitamente didattico, risulta al contrario piacevolmente ironica e efficace la lezione-spettacolo ideata e portata in scena dalla giornalista Maura Sesia e dall’attrice Daniela De Pellegrin e dedicata alle figure femminili ritratte da Carlo Goldoni.
Dopo avere sperimentato il loro format con le eroine del teatro shakespeariano, le due torinesi affrontano ora le Dame di Goldoni, concentrandosi in particolare su Mirandolina, archetipo di donna volitiva e capace di badare a sé e di forgiarsi autonomamente il proprio destino. Sesia racconta e spiega, De Pellegrin interpreta e dialoga con la compagna di palcoscenico ed entrambe ascoltano sbalordite la voce di Goldoni stesso – Giorgio Lanza, fuori campo.
Uno spettacolo pensato per gli studenti delle scuole superiori ma, come dicevamo, lontano da toni didascalici o da manuale polveroso bensì informale e divertito, colto ma non pedante, appassionato e intelligentemente auto-ironico.
Uno lavoro decisamente riuscito mentre, al contrario, necessita ancora di qualche messa a punto Patchwork, di Carol Cassistat e Cristina Cazzola. L’idea di partenza è buona: una coperta patchwork quale simbolo, colorato e immediato, della molteplicità che caratterizza ciascuno di noi, risultato delle esperienze, dei pensieri, delle passioni e delle idiosincrasie dei nostri avi.
Un uomo e una donna – che scopriremo essere un antropologo e un’artigiana che realizza splendide coperte patchwork – si incontrano in un aereoporto, dove il primo deve allestire una mostra mentre la seconda vende i suoi originali manufatti. Un non-luogo nel quale i due, dopo le incomprensioni e le diffidenze iniziali – lui parla in francese e pare non conoscere l’italiano benché, a partire da un certo punto, lo padroneggi senza difficoltà – iniziano a raccontarsi. Le rispettive famiglie, il lavoro, gli interessi…
Lo spettacolo, punteggiato da qualche incoerenza si tramuta poi in una sorta di fantasmagoria, in cui fili rossi di lana diventano immaginari percorsi intercontinentali – dal Canada al Sud America e fino all’Africa – e oggetti di ogni genere e provenienza si rivelano espliciti indicatori della policroma diversità che qualifica il nostro pianeta. Peccato, però, che tale lunga sequenza manchi della magia e della sacralità che la situazione e, soprattutto, l’intenzionalità delle autrici vorrebbero e si trasformi, al contrario, in un’esibizione di oggetti semplicemente “pittoreschi”.
Lo stesso finale dello spettacolo risulta “appiccicato”: certo, all’inizio si dichiara l’ambientazione in un aereoporto ma la sensazione trasmessa è quella, appunto, di trovarsi in uno spazio dell’immaginazione e della riflessione, del pensiero e del sogno. E, così, il “last call” per l’imbarco di un volo che l’antropologo deve assolutamente prendere ci è parso un espediente inverosimile e “confortevole” per concludere.
E dichiaratamente inverosimili sono le storie narrate dal Barone di Munchausen, personaggio consegnato alla letteratura da Rudolf Eric Raspe e portato in scena dalla compagnia piacentina Teatro Gioco Vita. Sul palcoscenico la riedizione – non filologica, però, bensì ripensata e ricreata dal drammaturgo e regista Tiziano Ferrari – dell’omonimo spettacolo, Il Barone di Munchausen, andato in scena esattamente quarant’anni fa, grazie alla magnifica collaborazione dell’ensemble con Nicola Piovani e Lele Luzzati.
Teatro d’ombre e teatro di narrazione concorrono alla realizzazione di un allestimento che vuole ripercorrere gli episodi più significativi di un personaggio realmente esistito eppure subitamente tramutato in leggenda. Lo ritroviamo oramai anziano e affaticato: si muove appoggiandosi a un bastone, anche se per lunghi tratti il rimembrare la giovinezza pare restituirgli le energie e la sicurezza del passo. Le sue strabilianti avventure sono narrate ricorrendo alle ombre e, in un caso, ai burattini.
In generale lo spettacolo – interpretato da Valeria Barreca – convince per la raffinatezza e la cura della scenografia e delle ombre – sono stati ripresi i disegni creati nel 1978 da Lele Luzzati – eppure il lavoro appare più un elegante reperto accuratamente spolverato e lucidato che un reale aggiornamento, così come vorrebbe la regia, ai molti cambiamenti intervenuti, nella tecnica così come nei gusti, nei quarant’anni trascorsi dalla prima edizione.
EMANUELA LOI – La ragazza della scorta di Borsellino
di Eleonora Frida Mino, Roberta Triggiani
collaborazione alla messa in scena Davide Viano
illustrazioni di scena Giulia Salza
realizzazione elementi di scena Valentina Savio, Luca Vergnasco
light design Eleonora Diana
interprete Eleonora Frida Mino
produzione Compagnia Eleonora Frida Mino
PATCHWORK – Un mosaico di storie
testo e regia Carol Cassistat, Cristina Cazzola
scene, luci e collaborazione alla scrittura Lucio Diana
musiche originali Nicolas Jobin
interpreti Sara Zoia, Daniele Tessaro
produzione Théâtre du Gros Mécano (Québec), Segni d’infanzia; in collaborazione con Accademia Perduta/Romagna Teatro, Atrium de Chaville (Parigi), Museo Banaki (Atene)
IL BARONE DI MUNCHAUSEN
adattamento teatrale e regia Tiziano Ferrari
scene Nicoletta Garioni
musiche Nicola Piovani
sagome Federica Ferrari, Nicoletta Garioni (dai disegni di Lele Luzzati)
interpreti Valeria Barreca
produzione Teatro Gioco Vita
DAME DI GOLDONI – La locandiera impossibile
di e con Daniela De Pellegrin, Maura Sesia
ideazione costumi Daniela De Pellegrin
elementi scenografici Claudia Martore
produzione Fondazione TRG Onlus
Casa del teatro ragazzi e giovani,
Torino, 10 aprile 2019