ELENA SCOLARI | Una immaginaria pièce lunga 365 giorni, tenutasi in altrettanti teatri in tutto il mondo, è arrivata all’ultimo giorno. Stiamo per assistere alla fine di una super-performance che funzionava così: i palchi di tutti i teatri partecipanti sono stati completamente ricoperti di fiori come fossero altari funebri, la gente poteva andare e venire, uno spettatore poteva trovarsi solo a fissare la flora (li avranno cambiati, ‘sti fiori, ogni tanto?) oppure condividere l’unicità dell’esperienza con altri astanti.
L’espediente ci viene raccontato tramite un lunghissimo testo che scorre sul display, il palco davanti a noi è effettivamente ricoperto di fiori. Silenzio. Osservazioni (scritte) su quanto tempo possa passare fissando la stessa immagine prima che questa perda di significato e prima che sopraggiunga la noia. Interrogativo che ultimamente usa, in teatro, già ce lo hanno posto, in Italia, i Sotterraneo, i Kepler 452…
Mezz’ora d’orologio di sole scritte tra i fiori. Viene la tentazione di prendere alla lettera il suggerimento di entrare e uscire dalla sala.


Il totem di parole continua il suo monologo descrivendo che cosa potremmo fare: uscire, confrontarci con gli altri fortunati che hanno assistito a questo evento, poi avviarci verso casa ascoltando musica in cuffia, fermarci a un incrocio, deviare dal solito percorso, ecc. ecc. Fin qui si tratta di fatti, più o meno, ma poi il totem comincia anche a dirci cosa dovremmo pensare, quali impressioni dovremmo avere, esautorandoci da una libertà di percezione che vorremmo invece continuare a conservare.

Passati questi trenta minuti – troppi senza alcun dubbio – il sipario cala per poi rialzarsi e si scopre una bella immagine che sa un po’ di installazione un po’ di citazione pittorica: una quindicina di corpi – tra cui una decina di figuranti reclutati su piazza – occupano lo spazio: molte donne, quasi tutte velate; sono colorati; tutti indossano guanti bianchi e una spessa calza che nasconde i loro volti e li rende “tipi”, privi di un’identità specifica e quindi simbolicamente “maschere”.

Foto Luisa Gutierrez

Da qui in avanti i performer si muovono, cambiano, si spostano sulla scena a comporre man mano diversi gruppi multipli, crocchi di persone che chiacchierano, famigliole, amiche che si incontrano, set con operatori in cui una regista (la metaregista del tutto?) muove gli elementi umani.
Vengono rappresentate scene quotidiane ma anche circostanze squallide o brutali: giovani ubriachi, una mancata violenza sessuale (un’apertura di ottimismo, in fondo), l’indifferenza verso i mendicanti… Vengono costruiti, sciolti e ricostituiti una quantità di cosiddetti tableaux vivants. Questa è La plaza, una piazza cittadina della società d’oggi, continuamente aggregata e disgregata, in cui i singoli pezzi si riassemblano – lentamente – in varie combinazioni. Per un’altra ora abbondante.
Nessuno parla, il testo è sempre solo “dettato” dal totem/display, che, perdipiù, si fa via via più sentenzioso, afferma molte cose, a volte banali, spesso enfatiche. Una specie di HAL 9000, ma molto meno scioccante.
Per soprammercato le musiche sono, credo, quello che oggi viene definito ‘tappeto sonoro’, quei suoni da sonar sottomarino, rarefatti e fantascientifici, che tanto servono ad aumentare l’effetto apodittico di ciò che viene affermato. Ma ciò che viene affermato non è la teoria della relatività, siamo onesti.

La Triennale Teatro dell’Arte ha fatto conoscere nel nord Italia El Conde de Torrefiel con il precedente Guerrilla, il FOG Festival di Milano ha coprodotto questo lavoro della compagnia catalana (un’altra!) che porta La plaza descrivendolo come «Un viaggio mozzafiato tra minuzie quotidiane ed eventi epocali». Non ci soffermiamo sull’uso coraggioso degli aggettivi mozzafiatoepocali, ma se possiamo riconoscere che alcune delle assertive riflessioni che leggiamo sul display non siano prive di qualche interesse – sebbene mai originali – dobbiamo anche sinceramente dire che ci si annoia infinitamente, in questa piazza.
Bussa l’intellettuale che è in noi per dirci che qui c’è un sacco di dilatazione del tempo, c’è la densità di ciò che è mostrato in maniera icastica, c’è pure la denuncia di alcune miserie contemporanee, c’è un’estetica che fa dell’inquietudine la propria cifra, ce ne siamo accorti? Sì, sì, eccome, ma francamente sono tutte cose che si potevano condensare nella metà del tempo, senza perdere comunque nulla della tanto amata rarefazione.

Non c’è, per esempio, corrispondenza di significato tra il fatto che molte delle donne siano velate, quindi musulmane, così come non esiste diretto rapporto tra i tableaux e il testo. “Tu fai questo, guardi quello, pensi questa cosa e ti domandi quest’altra”… Le scene che scorrono sono quello che il protagonista della passeggiata indotta vede durante il suo camminare, distrattamente.
Nel tableau finale o, meglio, nel set finale, arriva una lettiga con cadavere, l’unico corpo che verrà scoperto in tutta la sua nudità, volto compreso. È un’immagine il cui significato potrebbe essere un collegamento con l’apertura funebre, una sorta di legame luttuoso tra l’altare fiorito e l’entrata diretta della morte in scena. Oppure è l’esplicitazione (si fa per dire) dell’ambiente obitorio che pervade tutto il lavoro, e quindi noi abbiamo osservato tutto come coroner, a metà tra la vita e la morte?
Non c’è vita pulsante in queste figure che possono far pensare a pupazzi, a spiriti, a umanoidi, e in quest’ottica il cadavere pare il più vivo di tutti, porta una verità tangibile.

C’è poi un po’ di noi in tutti questi volti appiattiti dalla calza (e nemmeno una rapina!), certo. Anche questa pare un’ovvietà. Sarà che non siamo entrati in questa quarta dimensione di El Conde, ma con noi molti altri e questo un po’ ci conforta.

Ad alcuni di questi altri spettatori, con i quali abbiamo parlato nella piazza vera davanti al Teatro dell’Arte, veniva voglia di entrare a sparigliare le carte, inserirsi nella geometria algida di queste azioni, far parte di questa macroscopica e interminabile scena imitativa, rendendo la struttura aperta e meno mimetica. È una reazione cui sottostà una giusta insoddisfazione della parte di pubblico che si è quanto meno sentita chiamata in causa.
E voglio inserire qui il pensiero di una di queste spettatrici, esperta e attenta, Silvia Albanese, collaboratrice di PAC, relativamente a un altro punto descritto come focale nella presentazione del lavoro:

«Il foglio di sala recita: In questo lavoro vogliamo focalizzarci sul pensare al futuro come a un periodo sconosciuto e imprevedibile, che si materializza come il risultato di avvenimenti inaspettati.
Consapevole della vocazione al racconto fantascientifico della compagnia, mi viene da immaginare questo futuro come un luogo in cui gli uomini sono immortali, rappresentato da un susseguirsi di immagini che rievocano il quotidiano, in cui le donne continuano a restare incinte e a partorire bambini ma in cui forse non si muore più. E allora sì, la morte diventa evento da spettacolarizzare, in questa futuribile società dell’immagine di debordiana memoria: tanto nel cadavere (forse l’ultimo dei mortali, come il Mr Nobody di Jaco van Dormael) che viene ripreso e filmato ad arte, quanto nell’installazione iniziale fatta di lumini e corone di fiori, cui gli spettatori di cui la voce ci parla (e che non siamo noi) forse partecipano ricercando in loro stessi un’emozione ormai perduta legata alla morte, al lutto… a qualcosa che non esiste più, che non fa più parte dell’esperienza, e può essere ripetibile solo in un evento lungo 365 giorni… Questi corpi velati, “tipi”, maschere, non solo non hanno colore né identità, ma non hanno neanche un’età. E se questo futuro messo in scena da El Conde de Torrefiel fosse un futuro in cui si continua a nascere, ma non si muore mai? E se la piazza fosse sempre più piena di presenze, imprigionate per sempre in questa quotidianità?»

Questa è un’ipotesi che ha un suo fascino, che – a mio avviso – richiede uno sforzo creativo che sta più alla intelligente generosità di chi guarda che all’evidenza dell’opera scenica in sé.
Abbiamo letto una critica decisamente positiva di una firma autorevole, con la sensazione di un certo obnubilamento davanti a modalità (considerate) nuove e ritenute fonte di cambiamento teatrale “esplosivo” e “fulminante”. Dissentiamo. L’assenza della parola recitata e sostituita con scritte davanti a una platea privata dell’utilità dell’udito per 90 minuti non è un valore in quanto tale, soprattutto perché questi pensieri non hanno alcunché di rivoluzionario.

Personalmente sono rimasta molto distante, percependo più di tutto l’irritazione per la presunzione formale e sostanziale, di un ditino – guantato – sempre alzato.

 

LA PLAZA

Ideazione El Conde de Torrefiel in collaborazione con i performers
Regia Tanya Beyeler, Pablo Gisbert
Produzione Kunstenfestivaldesarts (Brussels), El Conde de Torrefiel
Coproduzione Alkantara & Maria Matos Teatro (Lisbon), Festival d’Automne & Centre Pompidou (Paris), Festival GREC (Barcelona), Festival de Marseille, HAU Hebbel am Ufer (Berlin), Mousonturm Frankfurt am Main, FOG Triennale Milano Performing Arts, Vooruit (Ghent), Wiener Festwochen (Vienna), Black Box Theater (Oslo), Zurcher Thetaerspektakel (Zürich)

CRT Teatro dell’Arte, Milano
29 marzo 2019

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