GIORGIO FRANCHI | La Settimana Enigmistica, per chi non se ne intende, può essere una vera e propria enciclopedia del terrore: basti pensare alla curiosa assonanza fra il suo gioco più famoso e gli spietati soldati di Papa Urbano II a Gerusalemme. Nomi come “crittografia”, “bersaglio” e “eliminazione” sembrano appartenere più all’ambito militare che a quello ludico; corvi e volpi parlanti si preparano ainfestare i nostri incubi, mentre detective inesperti invocano il nostro aiuto per scoprire chi è il feroce assassino celato tra le pagine. E per finire, un gioco che ha il nome di un complicatissimo esercizio ginnico alla Jury Chechi: triplici incroci obbligati.
Con tutto questo materiale da film horror, viene da chiedersi:perché, per intendere qualcosa di complicato, si dice “è un rebus”?
Parliamo pur sempre di uno dei meccanismi più semplici della ludolinguistica: al soggetto disegnato si associa la lettera più vicina e si legge di seguito. Se nell’illustrazione ci sono due pesci dai denti aguzzi, due molluschi pregiati e le lettere F e I, la frase sarà “squali F, I capesante = squalifica pesante” (Briga, N 2555, anno 1974).
Un gioco così facile che persino il ministro Matteo Salvini è riuscito a risolverne uno: era il 1993, e il leader del Carroccio, al tempo ventenne, era uno dei concorrenti del quiz “Il pranzo è servito”, condotto da Davide Mengacci. Eppure, per qualcuno il rebus resta ancora, appunto, “un rebus”. Ma perché?
Per capirlo facciamo un enorme passo indietro, e posiamo il piede sulle sponde del Nilo: tra le sfingi che danno il nome alla terza pagina della Settimana, troveremo un antenato di Bartezzaghi intento a disegnare geroglifici con una tecnica nuovissima per l’epoca. Questo progenitore del rebus si basava sugli accostamenti fonetici di due o più parole, espresse nel segno pittografico, per generarne una terza (come in italiano “cala” e “mite” danno “calamite”), e sancisce una progressiva transizione dalla scrittura a ideogrammi a quella fonetica.
Ecco la risposta: il rebus moderno, a prima vista, ci sembra ostico perché abbiamo sostituito alla comunicazione per associazione di immagini la più complessa arte della scrittura, e fatichiamo a fondere immagini e fonemi nello stesso linguaggio (a parte qualche fortunato, come il già citato ministro).
In realtà, ci basterebbe abbassare lo sguardo sullo schermo del nostro telefonino per renderci conto di quanto breve sia la strada che ci separa dai faraoni: la tastiera “QuickType”, brevetto Apple, propria dei cellulari iPhone con sistema operativo da iOS 10 in poi (2017), sostituisce le parole che digitiamo con l’emoji (la faccina) corrispondente quando possibile. Se a un amico inviamo il messaggio: “Vieni a casa mia a vedere la partita?”, il correttore ci propone il simbolo di una casetta e di un omino che calcia un pallone al posto dei sostantivi, mantenendo inalterato il resto della frase; il risultato assomiglia ai rebus in voga in Italia fino all’ ‘800, e negli Stati Uniti ancor oggi.
In un’epoca in cui è opinione diffusa che la lingua scritta e parlata si stia progressivamente depauperando, novità come queste inducono a pensare che il processo instaurato dal Bartezzaghi del Cairo si stia invertendo, con il ritorno dalla scrittura fonetica a quella a ideogrammi. Forse, chissà, saranno proprio i rebus a salvarci un’altra volta dai geroglifici. Quello che è certo è che converrà studiarli, per poter avere ancora remoti contatti verbali.
Anzi, per poter