MATTEO BRIGHENTI | Il possesso è l’illusione del controllo. I fatti, i sentimenti, la vita: cose, nient’altro. La roba costituisce, letteralmente, il bottino della guerra per affermare noi stessi sugli altri. Il tempo è denaro e il denaro è impegno, fatica. È (un) lavoro. E più lavoriamo, più ci identifichiamo con quelle che sono le cose nostre. Ci appartengono, perché apparteniamo a loro, come capita al Mazzarò di verghiana memoria.
Il ladro vanifica tale illusione. Mostra che esiste un modo diverso di combattere la battaglia del sé, scambiando il lavoro con il furto. È un’arma, questa, resistente a qualsiasi regola data o preteso potere, tanto che colpisce quando e dove meno ce lo aspetteremmo: dentro casa. Ovvero, la cosa più importante di tutte, fatta per proteggere ciò che abbiamo e siamo.
A quel punto, la nostra identità, costruita giorno dopo giorno, cade all’improvviso, come una maschera. Va in pezzi, tanti quanti sono gli averi portati via, rubati per sempre. L’ospite, scritto da Oscar De Summa e diretto da Ciro Masella, che lo interpreta con Aleksandros Memetaj, prova a raccoglierli e a rimetterli insieme, attraverso la conta dei danni di un uomo qualunque, faccia a faccia con il suo rapinatore, un immigrato albanese, per giunta. Che si tratti di una “lotta armata” lo si capisce fin dal sottotitolo: una questione privata richiama il celebre libro postumo di Beppe Fenoglio, romanzo di iniziazione al tempo della Resistenza.
Al debutto nazionale al Teatro di Rifredi di Firenze (anche produttore al fianco di Uthopia), attori e spettatori sono riuniti sul palcoscenico, di fronte al rovescio del sipario chiuso. Il dietro le quinte è il davanti, e viceversa, così come, presto, il giusto si rovescerà nell’ingiusto. Masella e Memetaj sono, innanzitutto, due interpreti con le spalle al muro. Costretti, ogni sera, a fare la commedia per vivere o sopravvivere. Lo spettacolo, restando nel lessico bellico, assume l’aspetto di un “atto dimostrativo”.
Illuminati da due lampadine sole, questi novelli Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot di Samuel Beckett discettano, con una piatta coloritura di toni alla maniera dei quotidiana.com, sul tutto che resta da fare e non può non essere fatto. L’inizio, il culmine e la fine dell’opera sono incastonati in questo non tempo e spazio. Sembra una sorta di eco profonda delle loro voci interiori (i due, qui, sono amplificati) e di svelamento del meccanismo teatrale, vicino alla chiusura del premiato Overload dei Sotterraneo. È tutto finto, eppure siamo venuti stasera perché sia vero.
Terminata la conversazione d’avvio, due lampade per terra rischiarano adesso lo spazio scenico di Federico Biancalani. Vestiti da uomo e da donna, camicie, camicette, golf, giacche, pantaloni sono sparsi dappertutto. Non alla rinfusa, con metodo: è una specie di parata, di esposizione e di prima dimostrazione di forza economica e di status sociale del proprietario al topo d’appartamento. Per certi versi, assomiglia a un plotone d’esecuzione, schierato e in attesa dell’ordine di fare fuoco.
Completano il quadro, a destra, un tavolino basso con sopra un cartone della pizza e una cornice per foto; a sinistra, un pouf maculato; al centro, un tavolo e due sedie girevoli; infine, un paio di elettrodomestici buttati qua e là.
Ciro Masella, in completo scuro, comincia legando a una sedia, con dello scotch da pacchi, Aleksandros Memetaj, in tenuta sportiva. Pare che stia allestendo la vetrina di un negozio e che il ragazzo sia un manichino. L’azione si riavvolge e torna all’istante in cui il padrone di casa ha sorpreso e immobilizzato il rapinatore. Allora, l’accensione dei servizi scopre il palco nella sua interezza e concretezza, sottolineando come il carattere emblematico de L’ospite sia proprio quello del caso di studio, dell’esperimento.
Il coltello tra loro è ciò che li accomuna e divide. Condizione e situazione della recita è l’attraversamento di uno stallo, che precipita la vicenda nel vivo fin da subito. Masella impersona un folletto sadico, è dolce e sospettoso, giocherellone e impaurito. Dà fondo al trasformismo che gli è comunemente riconosciuto, consegnandoci il ritratto di un travet, «un uomo “comune, normale, buono”» lo descrive De Summa nelle sue note, che trova sé fuori di sé, nell’enormità della risposta, nella dismisura della reazione a difesa dell’onore e del prestigio della roba e suo personale.
Ma più che nelle esplosioni d’artificio, la sua bravura risiede nel far intendere che esiste qualcosa che va al di là delle parole e dei gesti. Difatti, s’intuisce che non ce l’ha, realmente, con il suo “ospite inatteso”, bensì con il mondo intero e, soprattutto, con se stesso. Il ladro, come oggigiorno lo straniero, è soltanto un pretesto, una giustificazione per sfogare la rabbia e il senso di rivalsa.
Comunque, per una volta che il signor nessuno è nella posizione di decidere, può restituire quanto ha ricevuto finora e ridurre a una cosa la vita altrui, alla stregua di quanto hanno fatto con lui. Pazienza se non ha tra le mani uno dei veri responsabili. Anzi, in qualche modo il rifarsela con un innocente è la chiave di tutto, perché un debole, per sentirsi forte, ha bisogno di trovare qualcuno ancora più debole. È la vittima, si potrebbe dire, che fa il carnefice, è la sopportazione dell’una che tempra la crudeltà dell’altro.
Aleksandros Memetaj è, al pari del basso continuo, il sostegno armonico della composizione. Cadenza gli intervalli alla linea eclatante del collega, grazie a una presenza in formidabile sottrazione, tutta accenni degli occhi, contratture del busto, mezze parole, frasi interrotte. Dice senza dire e fa senza fare, apparentemente, nulla di rilevante: è la conferma di un talento, invero già luminoso in Albania casa mia, che tanta, meritata fortuna gli ha portato. Il suo è uno stare in scena opposto e speculare a quello di Masella, tanto che lo scontro tra i personaggi si trasforma, anche, in un confronto fra pesi e misure interpretative, scuole e generazioni attoriali differenti.
La rappresentazione del torturato e del torturatore copre per intero l’arco di 24 ore ed è inframmezzata, oltre che dalle sopraindicate sospensioni beckettiane, da salti temporali al dopo, alla cattura, alla stazione di polizia, finanche alle oscure stanze del potere (con tanto di riferimento al caso Cucchi). I ruoli s’invertono di continuo, segno che la disumanità non è prerogativa della persona, bensì della funzione che essa esercita. Del resto, è l’occasione che fa l’uomo ladro.
Il passo drammaturgico e registico è ritagliato sul genere pulp. Non solo perché si mima la scena del film Le iene di Quentin Tarantino, quella in cui Mr. Blonde tortura il poliziotto, ma soprattutto perché della ferocia viene presentato l’eccesso grottesco. Un andamento distante anni luce dalla lirica e minimale leggerezza di Un quaderno per l’inverno di Armando Pirozzi e Massimiliano Civica. E altrettanto lontano dalla sottile e perversa tensione psicologica di Circeo, il massacro di Filippo Renda ed Elisa Casseri.
Il tentativo ultimo, quindi, pare sia forzare e superare l’irrappresentabilità della violenza a teatro, spostando l’attenzione dal cosa al come, dalla sostanza alla forma. La scelta, però, da opportunità via via si rivela un ostacolo; la costante ricerca del sorriso, pur se a denti stretti, indebolisce e allontana le dimensioni che fondano la natura di qualsiasi atto violento: il pericolo e la paura.
In definitiva, l’orizzonte, come detto, da osservazione in vitro, sconta i suoi limiti nel momento in cui la realtà finta del palcoscenico non diventa finzione vera della scena. Non basta affermare, quando ormai è fatta, che è tutto un gioco. Per giocare bisogna credere di crederci davvero: a noi, sin dal principio, è stato fatto capire che non dovevamo prendere L’ospite sul serio.
L’OSPITE -una questione privata-
di Oscar De Summa
regia Ciro Masella
con Ciro Masella e Aleksandros Memetaj
spazio scenico Federico Biancalani
produzione Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi Centro di Produzione Teatrale Firenze / Uthopia
18 aprile 2019
Teatro di Rifredi, Firenze