RENZO FRANCABANDERA | La domanda è: il nostro tempo vive una ossessione per il realismo? Il potere della cronaca, la dicitura “ispirato a una storia vera” che campeggia su molte locandine cinematografiche, i plastici a uso del conduttore per spiegare fin dove si sia sparso il sangue in quel massacro domestico sono elementi che evidentemente suggestionano l’audience nel tempo dell’alluvione telematica, della presa diretta.
Lo spettacolo dal vivo non è esente da questo tumultuoso filone, proponendo, di volta in volta, declinazioni molto diverse del rapporto fra scena e narrazione della realtà. Se vent’anni fa bastava il narratore (e la sedia, nel caso) e una vicenda più o meno biografica, ora la telecamera, il documentarismo scenico, il rapporto tecnologia-sguardo, ammantano la narrazione del contemporaneo e tutto sembra un film.
L’ultimo numero del trimestrale Hystrio dedica il suo dossier a questo ‘modo’, come lo avrebbe chiamato Northrop Frye, intendendo quella costante caratteristica che permette anche a chi non è addentro alle questioni del linguaggio di avere, in forma sintetica, una prima efficace definizione di ciò che ha davanti agli occhi. Un filo rosso che collega una sorta di internazionale del realismo di cui fanno parte artisti come Milo Rau, i Rimini Protokoll, Lola Arias, la Agrupación Señor Serrano e, prima di loro, una generazione di artisti che, al rapporto fra realismo e pratica artistica, ha dedicato indagini tutt’altro che banali, come la Fura dels Baus, giusto per citarne una.

Introduciamo questa riflessione in occasione della prima nazionale, occorsa a metà aprile al Teatro Arena del Sole di Bologna, di Granma. Metales de Cuba, ultimo lavoro proprio dei Rimini Protokoll, collettivo internazionale di artisti raccolto intorno alla figura emblematica di Stefan Kaegi, che ha avuto tra i tanti riconoscimenti internazionali anche il Leone d’Argento 2010 per il Teatro, e il Premio UBU 2018.

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Era una cosa che sapevamo: alla premiazione degli Ubu Stefan Kaegi ci aveva salutato da L’Havana con un videomessaggio anticipando questo loro lavoro e giustificando così l’assenza al ritiro del premio (che ha poi ritirato di persona proprio in questa occasione a Bologna in una cerimonia ufficiale).
Lo spettacolo, scritto e realizzato a Cuba, è interpretato da quattro giovani, nipoti di persone che la rivoluzione di Fidel e Guevara l’avevano fatta. I materiali a corredo dello spettacolo, fra i quali un bel libricino fotografico, legano la memoria del passato al presente. La memoria della generazione della rivoluzione, quella dei coraggiosi che a bordo di una barchetta a motore sgangherata, il Granma appunto, guidati da Fidel, portarono a termine una delle imprese più leggendarie e assurde della storia contemporanea: la rivoluzione comunista sull’isola, a due passi dagli USA.
Cosa è rimasto di Cuba e di quel moto di cambiamento ideale?
Quale eredità lascia a se stessa e ai suoi figli e ai figli dei suoi figli?

Il palco vuoto, un pavimento che ricorda una delle case comuni occupate da una delle famiglie di cui si narrano le vicende; sullo sfondo un’ampia superficie di proiezione. A destra una macchina per cucire.
Entrano in scena, uno alla volta, i quattro nipoti: due uomini e due donne (Milagro Álvarez Leliebre, Daniel Cruces-Pérez, Christian Paneque Moreda, Diana Sainz Mena). Uno è nipote di una importante figura di quella rivoluzione, uomo che fu ministro del governo rivoluzionario e che poi ricoprì altri ruoli apicali nell’amministrazione della Cuba comunista. A lui è dedicata una statua a Cuba, e suo nipote, pur nelle contraddizioni di una vita comunque diversa e privilegiata rispetto ai suoi coetanei, è orgoglioso di questo nonno, del quale ora occupa lo studio, la scrivania, dalla quale crea contenuti web per una società canadese.
Un altro dei senior di cui si racconta è stato  un soldato della rivoluzione. È ancora vivo. E suo nipote è ingegnere informatico appassionato di baseball. Le due giovani donne sono rispettivamente la nipote della musicista di una formazione di musica caraibica, celebre ai tempi della rivoluzione (con lei parla a distanza sua nonna, che ancora vive), e la nipote di un’anziana sarta, una proletaria, che ha vissuto tutta la vita in una casa occupata (dove ora vive la nipote), insegnante attiva politicamente e fedele agli ideali della rivoluzione che ancora insegna, e per i quali ancora milita.

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È proprio la macchina da cucire della nonna quella che vediamo in scena? Forse.
Dalla macchina viene (fintamente) cucita una grande stoffa calendariale che ricorda al pubblico in quale anno ci si trova. Partiamo quasi un secolo fa, dai primi anni fra le due guerre, quando Cuba conobbe un florido commercio dello zucchero e degli altri beni dell’agricoltura. Di lì seguiranno la rivoluzione di Batista legata agli USA e la successiva rivoluzione guidata dalla guerriglia fedele a Castro a bordo della Grandma.
Non sarà il primo il tentativo che andrà a buon fine. Ma al secondo la popolazione si unirà ai rivoluzionari e inizierà la forse più incredibile storia di economia comunista del secolo scorso, proprio sotto il naso del dirimpettaio statunitense, distante un’ora di navigazione, come sanno tutti coloro che comunque hanno tentato di fuggire per raggiungere Miami e le agiatezze del mondo occidentale. Fra loro anche un bambino, Elian, la cui vicenda fu un caso internazionale perché conteso nel diritto internazionale fra Cuba e gli Stati Uniti. Il piccolo tornò a Cuba, diventando un ulteriore emblema, ultima icona del governo di Fidel che ancora resisteva, quasi anti storicamente, al crollo dei regimi comunisti. Proprio la morte del Lìder e le progressive aperture del fratello Raul all’economia di mercato stanno oggi cambiando il volto dell’isola, i suoi ritmi le sue abitudini. Molta della vita sociale si sta modificando, le strade non sono più popolate da frotte di bambini che giocano, lasciando posto ai tavolini per i turisti.

Come narrare questo cambiamento nel modo mimetico-realistico?
L’espediente drammaturgico che Rimini Protokoll usa per la narrazione da Cuba è lo stesso che usa Petronio per l’episodio di Fortunata nella cena di Trimalcione, riportato da Auerbach nel suo fondamentale Mimesis come esempio a proposito del realismo letterario. Il racconto avviene non attraverso il discorso diretto dello scrittore o del protagonista, ma di altri commensali che parlano dei loro vicini. E chi meglio dei nipoti può raccontare, nell’ossimoro con il proprio presente, il tema centrale della Fortuna, del cambiamento.
Fu vera gloria? Ecco che qui, il confronto intergenerazionale spinge la riflessione del collettivo artistico quasi fra le braccia dell’analisi che György Lukács faceva nei Saggi sul realismo, in cui, fra le altre cose, ipotizzava per gli artisti dediti a questo modo narrativo, la presenza di aspirazioni utopiche, che entrano in conflitto con i risultati dell’osservazione della realtà, determinando le contraddizioni di cui si riflette evidenza nelle loro creazioni.

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Questi cortocircuiti, secondo il grande studioso, permettono al narratore realista di rappresentare, senza che vengano permeate di schematismi, gli ossimori storico-sociali. Il ricorso al modo realistico si accentua secondo le analisi di Lukács in momenti di particolari trasformazioni storiche, in cui gli artisti realisti, invece che focalizzarsi sul carattere medio, si allontanano dal “tipo umano” per centrare l’analisi sulla contraddizione dei caratteri estremi. Se Aristotele centrava il rapporto dell’arte con la mimesis attorno al concetto di verosimiglianza – l’unico che permetteva la catarsi – in questo caso il paradigma di Lukács pare trovare maggior rispondenza.
Tutto il lavoro è costruito sul tema della contraddizione fra la grande Storia e le piccole storie, fra gli ideali e la realtà, fra l’epopea leggendaria della generazione rivoluzionaria e la disillusione concreta della generazione presente, scelta fra persone che, comunque, di quel sogno portano dentro un respiro, ma che non riescono più a farlo proprio, nonostante lo sforzo.
Bello che questo tema dell’anemos storico-parentale passi per uno strumento a fiato, suonato da una delle protagoniste in scena che ha anche impartito lezioni agli altri e che è proprio emblematico di un respiro che cerca un suo suono, una sua profondità.

Riesce lo spettacolo? Il realismo che sdoppia il piano narrativo e ci porta i veri protagonisti in sala, ovviamente, crea un clima di vicinanza. Assistiamo alla vivace e abilmente costruita narrazione di quattro vicende, che sono poi otto e per rifrazione quelle dell’intera Cuba rivoluzionaria. Ci chiediamo anche, e con lo stesso pathos, quale ruolo avrà il teatro in questo documentarismo in fondo “anti-attorale”, dove la supremazia è quella della vicenda, della storia, dell’immagine, sull’uomo: il grande inganno.
Insomma il patto che, in genere, stipula lo spettatore con la magia della sala, viene ora sconvolto (qui come in altri recenti costrutti scenici come quelli di Rau) dalla progressiva supremazia di una narrazione documentale costruita molto bene, straordinaria a tratti, di mestiere e con un marchio di costruzione che, chi conosce i Rimini Protokoll, ha molto ben chiaro. Ma se in altri lavori il traslato simbolico mantiene una sua forza astratta, qui l’intento narrativo prevale e, pur nella grandissima – e per taluni versi tristissima – riflessione intorno alle contraddizioni dell’utopia di cui siamo figli (tutti, anche chi a Cuba non è vissuto), ci chiediamo se anche il teatro non stia irrimediabilmente evolvendo verso qualcosa che ancora non sappiamo, verso una dimensione in cui esiste, forse, un luogo della rappresentazione e alcuni che prendono parte a una narrazione contemporanea, ma in cui la forza evocativa del simbolo è sempre più esile, in cui l’attore, lo spettatore, il regista, sono ruoli che stanno cambiando definitivamente i propri connotati.
Restando uguali?
Diventando altro e suicidando il teatro?
Nell’opera di Rimini Protokoll questi ruoli, per secoli fondativi di una pratica artistica, sono quasi spariti. In molti loro lavori gli attori sono gli stessi spettatori (spettattori), che in alcuni casi creano la drammaturgia; quando non è una macchina con un pre-registrato a dire loro cosa fare, trasformandoli in super(?) marionette. Ma in fondo a Milano è stato enorme il successo di Remote, in cui un’orda di cittadini veniva portata a compiere azioni balzane qui e là per la città da un preregistrato in cuffia, esacerbando quelle contraddizioni di cui dicevamo prima.

Ma siamo poi sicuri che queste scintille da contatto dei fili scoperti che sarebbero tipiche del modo realistico, vengano poi avvertite come tali dagli spettatori? O diventano solo emblemi sempre più tipici di un modo narrativo?
E d’altronde, ormai sono sempre meno gli spettacoli che terminano con il sipario che si chiude e sempre più quelli in cui sfuma un video con una dissolvenza al nero, portando la sala verso il cineatro e restituendo lo spettatore a una società che non ha più riti.
Come in Granma.
Come a Cuba.

 

GRANMA. Metales de Cuba

un progetto di Rimini Protokoll
concept e regia Stefan Kaegi
drammaturgia Aljoscha Begrich, Yohayna Hernández González, Ricardo Sarmiento (assistente)
spazio scenico Aljoscha Begrich, Julia Casabona (assistente)
video design Mikko Gaestel in collaborazione con Marta María Borrás (Cuba)
musiche originali Ari Benjamin-Meyers
sound design Tito Toblerone, Aaron Ghantus
costumi Julia Casabona
direzione tecnica Sven Nichterlein
gestione della produzione Maitén Arns
assistente di produzione Federico Schwindt (Berlino), Dianelis Diéguez (Cuba), Miriam E. González Abad (Cuba)
assistente alla regia Noemi Berkowitz
intership Joanna Falkenberg (stage), Ignacia González (direzione), Lenna Stam (costumi)
sottotitoli Meret Kündig
traduzione Franziska Muche, Anna Galt (Panthea)
lezioni di trombone Yoandry Argudin Ferrer, Diana Sainz Mena, Rob Gutowski
ricerca Cuba Residencia Documenta Sur, coordinata da Laboratorio Escénico de Experimentación
interviste Sociali Cuba Taimi Diéguez Mallo, Karina Pino Gallardo, Maité Hernández-Lorenzo, José Ramón Hernández Suárez, Ricardo Sarmiento Ramírez

in scena Milagro Álvarez Leliebre, Daniel Cruces-Pérez, Christian Paneque Moreda, Diana Sainz Mena

Una produzione di Rimini Protokoll e Maxim Gorki Theatre Berlin in coproduzione con Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival TransAmériques (Montréal), Kaserne Basel, Onassis Cultural Center – Atene, Théatre Vidy-Lausanne, LuganoInscena-Lac, Zürcher Theaterspektakel
Finanziato da German Federal Cultural Foundation, Swiss Arts Council Pro Helvetia e Senate Department for Culture and Europe

Teatro Arena del Sole, Bologna
prima nazionale
durata 135 minuti