RENZO FRANCABANDERA e GLORIA GIOVANDITTI |RF: Quanto attuale è il tema della storia degli imperi che ciclicamente vengono sovvertiti e fagocitati da quelle che furono le colonie, le periferie, le terre remote su cui il potere degli stati nazione ottocenteschi si allungava! Da qui i problemi legati all’immigrazione, all’integrazione delle generazioni venture. E ovviamente anche il tema delle colonie stesse, non di rado sfruttate ben oltre la fine del colonialismo. Come nel caso della Libia, colonia italiana nel periodo fascista, ma poi passata sotto una sfera di influenza italo-francese, soprattutto con riguardo alle immense ricchezze petrolifere, sfruttate dalle multinazionali delle due nazioni europee di riferimento, presenti in quella terra con massicci investimenti. E per lungo tempo colonie di cittadini italiani sono state presenti, vivendo in armonia con la popolazione locale. Non senza subire gli scossoni che alla vita delle persone arriva dai terremoti della grande Storia.
GG: «Da dove vengo? Chi sono? Da dove proviene la mia storia?»
Queste sono le domande che, all’inizio di Tripolis, il bambino interpretato da Dario Muratore grida con voce insistente sul palcoscenico, per ascoltare quella risposta e quel racconto che soli sarebbero in grado di conciliare i conflitti, le domande rimaste aperte e i vuoti ancora da colmare.
RF: Dario Muratore è interprete valente poco più che trentenne, che per anni ha attraversato un teatro d’avanguardia e lavorato con molte interessanti realtà, sia in Sicilia, dove si è formato e dove ha vissuto per la maggior parte della vita, sia in altre produzioni fuori dalla regione d’origine. Questo spettacolo, più inscritto in un codice di narrazione tradizionale, lo vede per la prima volta nella impegnativa veste di autore e interprete. Un viaggio a ritroso nella storia della sua famiglia, cercando, da bambino, di tornare indietro nel libro della memoria.
GG: La luce cambia e il bambino scompare sulla scena per lasciar posto a una donna, interpretata dallo stesso Muratore, che racconterà di questo avventuroso viaggio. Un intervallarsi di luci fredde e luci calde illumina la donna, seduta comodamente su una poltrona d’antiquariato decorata con fantasie arabeggianti. Allo stesso modo le calde musiche mediorientali sono in grado di trasportare il pubblico in un mondo lontano, rievocando Tripoli, capitale della Libia italiana durante il regime fascista.
La donna vestita con abito chiaro e uno scialle ocra artigianale, seduta e rivolta verso il pubblico, tiene in mano per quasi l’intero spettacolo un filo da cucito che viene sciolto e passato tra le mani durante il suo monologo; quasi a voler passare in rassegna il filo della propria vita.
Figlia di italiani stabiliti a Tripoli negli anni della seconda Grande Guerra, la donna racconta di sé, della sua famiglia, delle generazioni italiane vissute in una colonia fascista. L’angolazione del monologo è duplice: da un lato la propria origine culturale italiana, dall’altro l’impatto con una quotidianità nordafricana. Ai suoi occhi la convivenza tra i due popoli è pacifica; della sue infanzia emerge il deserto, il sole, il caldo e i bambini che insieme e lei giocano nei cortili dei quartieri. L’italiano era la lingua parlata dalle molte famiglie trasferite in Libia, ma anche la conoscenza dell’arabo era fondamentale: elemento di congiunzione tra le comunità. Ci si capiva e il rispetto era virtù comune a entrambe le tradizioni; gli italiani e gli arabi sapevano mantenere un’equilibrata convivenza, al saluto italiano corrispondeva sempre un Salam Aleikum, “che la pace sia con te”.
È la pace che dimora nei racconti della signora, la stessa che sentiva in adolescenza, quando indossava il “vestito della festa” per andare a teatro a conoscere il generale Badoglio. La guerra era lontana e si prospettava un futuro positivo: il regime si presentava un modello politico intoccabile.
RF: L’ambientazione è quasi quella di una tenda, giovandosi della interessante trovata scenica del baldacchino all’interno del quale la donna appare ieratica nel suo raccontarsi, in una dimensione che Muratore riesce a indossare con capacità di sfumatura. Se il passaggio drammaturgico dalla vicenda introduttiva del bambino a quello della anziana progenitrice è uno scalino un po’ brusco e non del tutto definito, la narrazione intorno alla figura anziana e l’interpretazione dell’interprete si arricchiscono di sfumature espressionistiche e mimiche che cercano la loro completezza in movimenti minimali. Di fatto la narrazione si completa con l’interprete seduto per la maggior parte del tempo. Ma ciò nondimeno la vicenda non manca di coinvolgere l’uditorio. Anche perché a quella pace iniziale seguiranno gli scossoni della Storia.
GG: All’inizio della seconda Guerra, infatti, le cose si fanno diverse. D’improvviso la situazione libica si ribalta. La scena racconta la svolta storica: la protagonista è illuminata da una forte luce e le musiche curate da Giovanni Magaglio si fanno più drammatiche.
La donna è ormai grande, sposata e madre. La voce impaurita e l’espressione cupa ne trasmettono le paure. La sua città cambia; alcuni italiani sono tornati in Italia mentre gli arabi non sono più gli stessi, sembrano diversi, quasi più maleducati. Il fascismo è caduto e la situazione in Libia cambia drasticamente. Chi può dirsi straniero ora? I ruoli si ribaltano e gli invasori si sentono invasi proprio da chi avevano invaso: i confini arrivano a confondersi.
Ma c’è qualcosa di profondamente umano e universale che tra, i cambiamenti politici e sociali, permane: l’unione di storie di madri arabe e italiane che insieme, in una complice intesa, cooperano.
Storie d’Italia e Libia si intrecciano, si scambiano i colori, l’aria, i cocci di cous cous. Si scambiano il sole e i film, le gioie e i pianti. In un’epoca politica tesa, da costruire, per i colonizzatori e colonizzati ciò che resta è la condivisione della terra, della città, del sole e del deserto.
RF: L’ambientazione musicale richiama nella cifra compositiva lo stile di Passion, la monumentale creazione di Peter Gabriel per il film L’ultima tentazione di Cristo. Potrebbe essere usata con meno afflato enfatico o non per creare dinamiche intervallari rispetto al narrato, ma nel complesso parliamo di una costruzione pregevole e non fuori tema. Belle davvero le intonazioni luminose di Petra Trombini, la cui capacità di creare ambiente con le temperature cromatiche resta qualità distintiva.
La narrazione, a questo punto della vicenda, cerca un dialogo anche con il nostro presente.
GG: Il tema dello straniero, allora, arriva a essere il punto centrale di questo spettacolo: chi si sente straniero, chi è straniero, e se esiste veramente lo straniero. Una tematica attuale, ma è l’angolazione particolare e fuori dal comune che la rende interessante. Quando il teatro veicola scorci di storie come questa, di un’Italia ormai lontana e sconosciuta, diventa occasione di riflessione e autoanalisi. Avere una nonna colone in Libia, in grado di raccontare la sua condizione da italiana nelle colonie e poi da straniera in terra natia, la Libia, in un momento storico come il nostro, può avere la grande potenzialità di smuovere domande su noi stessi e sull’Altro.
RF: Di fatto parliamo di un’angolazione, di un punto di vista che nel teatro di narrazione non ha altre ispirazioni comparabili se non l’Italianesi di Saverio La Ruina di qualche anno fa, che raccontava della comunità italiana in Albania, e della condizione sospesa di queste esistenze alla fine del periodo bellico non tanto nel loro stare nel territorio coloniale, quanto, finito il tempo della conquista, nel momento in cui sono diventati stranieri non solo per la terra in cui vivevano da coloni e che ora non li vuole più, ma anche fondamentalmente da quella da cui sono emigrati, l’Italia, cui più non appartengono.
GG: Sono i profondi quesiti nascosti nella ingenua curiosità delle domande iniziali poste dal bambino, che da Tripoli a Campo Teatrale a Milano, a distanza di anni torna a rivivere, grazie alla memoria e grazie al teatro.
RF: Lo spettacolo, al netto di qualche utile aggiustamento sul finale che al momento non torna sul dialogo con la figura del bambino, rendendone di fatto l’utilità ai fini scenici un po’ artificiosa, come pure di qualche lungaggine centrale nella vicenda coloniale, ha momenti di pathos e di montaggio quasi cinematografico delle inquadrature, che rendono vorticosi alcuni momenti della narrazione scenica. Muratore conferma la sua capacità attorale e propone uno spettacolo invero onesto e che ha il potenziale per poter circuitale ed essere visto, sia con scopo più didattico per le scuole (e ad avercene per le scuole proposte così curate…) sia per un pubblico ampio e serale.
TRIPOLIS
di e con Dario Muratore
suono Giovanni Magaglio
luci Petra Trombini
scena Igor Scalisi Palminteri
costumi Francesco Paolo Catalano
aiuto regia Federico Cibìn e Simona Sciarabba
grafica Manuela Di Pisa
produzione Piccolo Teatro Patafisico
in collaborazione con Campo Teatrale Milano, Dimora Teatrale Macciangrosso, Compagnia Nando&Maila – Dulcamara