LAURA NOVELLI | Cosa sia veramente la pièce Autobiografia erotica di Domenico Starnone, messa in scena da Andrea De Rosa e vista al Piccolo Eliseo di Roma nelle sere scorse, non è facile a dirsi. Un incontro. Uno scontro. Un confronto. Un doppio monologo autobiografico che vira a tratti verso il dialogo serrato. Una sticomitia torbida e misteriosa. Un viaggio nella memoria. Un affondo nelle sensazioni più intime e scabrose. Una riflessione sul corpo, sulle pulsioni sessuali, sull’Eros. Sul femminile e il maschile. Sull’attrazione e la repulsione. Un inno alla sensualità sommessa e a quella esibita. Una caparbia-irrisolta-umanissima ricerca di sé. Un bisogno ultimo di fare i conti con il passato e con il presente.
Il tessuto dello spettacolo, interpretato con magistrale polifonia espressiva da Vanessa Scalera e Pier Giorgio Bellocchio, è sottile. Come sottili risultano sia la drammaturgia (che Starnone stesso ha tratto dal suo romanzo Autobiografia erotica di Aristide Gambía, Einaudi, 2011) sia l’intelligente regia di De Rosa, giocata sulla semplicità di una scena nuda (solo un tavolo di metallo e due sedie) e su una coreografia di luci e ombre che sembra quasi voler inseguire i due personaggi, pedinarli senza sosta, per meglio definire le loro emozioni sempre nuove e sempre mutevoli.
Un uomo e una donna si ritrovano a vent’anni di distanza dal fugace rapporto sessuale che ne segnò la conoscenza. Una frequentazione durata appena qualche ora e poi sepolta nelle rispettive memorie con modalità, trepidazioni, ricadute assai diverse. Aristide e Mariella si erano infatti conosciuti a Ferrara in occasione di una breve trasferta lavorativa di lui, allora ventitreenne, giunto da Napoli per prendere in carico l’edizione di un libro scritto dall’avvocato presso cui la diciottenne ragazza – anch’ella di origine partenopea e attraversata da luminose velleità letterarie – faceva allora la segretaria. Caso volle che quel pomeriggio Mariella venisse incaricata di accogliere il giovane editore meridionale (già sposato e padre di due figli piccoli) e di portarlo in giro per la città in attesa del colloquio con il suo datore di lavoro. Caso volle anche, però, che tra i due scattasse un magnetismo fisico inatteso e improvviso, acceso da lei nel buio di una sala cinematografica e conclusosi con un rapporto sessuale furtivo e brutale consumato senza poesia nello studio del legale.
Tutto questo ovviamente non si vede. I protagonisti lo evocano ora che, complice una lettera/invito molto piccante di Mariella, si rivedono a casa della donna. All’inizio dell’atto unico li troviamo seduti, uno davanti all’altra, ai capi opposti del tavolo. Cosa vuole lei? Perché lui ha accettato quell’invito? Cosa si aspettano entrambi da questo incontro? Cosa significa questo parlarsi così chiaro, spudorato, persino osceno, dopo due decenni di silenzio?
Si osservano, si studiano: sembrano cavie da esperimento l’uno per l’altra e viceversa. Lei si mostra più consapevole, determinata, provocante, stizzita. Lui pare abbandonarsi cautamente a quell’esperienza, pervaso da un fatalismo lento che nasconde, chissà, la recondita speranza di rimediare un amplesso. Come stiano realmente le cose dentro le loro teste e i loro cuori non è dato saperlo. Proprio come capita nella vita, nei rapporti reali, nelle relazioni quotidiane. Ed è proprio questa indeterminatezza l’aspetto più interessante del primo quadro.
Poi Marisa propone di fare un gioco: ricordare i dettagli, i particolari, di quel pomeriggio così lontano nel tempo. Via via che il dialogo procede, il linguaggio si fa esplicitamente forte, fisico, anatomico (a cosa potrebbe alludere d’altronde il tavolo in scena se non che a un letto chirurgico, come a vivisezionare l’animo?). Il corpo sinuoso della donna diventa un manifesto di erotismo; Aristide perde il suo iniziale imbarazzo. E si fa strada in modo sempre più chiaro l’idea che quell’ex-ragazza dall’apparenza smaliziata e provocatoria cerchi ora, da adulta, una risposta a dubbi sedimentati per anni – «Chi eri tu vent’anni fa?», è la domanda centrale –, e che l’uomo, invece, abbia sbiadito la nitidezza di certi ricordi.
Lei rincorre un’illusione. Lui rovista nelle esperienze rimosse. Ma non crediamo ci sia qui un punto di vista benevolo nei confronti del sentimentalismo della donna e critico nei confronti della brutale sincerità dell’uomo. Non è questo il punto e sarebbe troppo riduttivo risolvere il gioco in un dualismo di genere. In realtà, in ballo in questo bel lavoro c’è l’impossibilità di conoscere a fondo l’altro e, in definitiva, se stessi. L’impossibilità di definire se stessi grazie allo sguardo dell’altro. L’impossibilità persino di amare e di farlo sempre in modo puro (per certi versi merita un rimando allo “scandaloso” Girotondo di Arthur Schnitzler). E soprattutto l’impossibilità di trattenere nel tempo le sensazioni, le vibrazioni intime legate all’idea di un amore. Perché i sentimenti resistono a seconda di come riusciamo o vogliamo ricordarceli. Ed è tutta roba individuale, personale. (Un tema esteso e complesso che fa tornare in mente il recente e notevole film di Valerio Mieli Ricordi?, interpretato da Luca Marinelli e Linda Caridi).
Scalera e Bellocchio (già insieme in Lacci, sempre di Starnone, diretto da Armando Pugliese nel 2017) sorreggono con estrema bravura l’intelaiatura sensibile e acuta ma non certo facile del testo: l’attrice cambia di continuo registro, tono, profondità vocale, prossemica fisica. Bellocchio abbraccia uno stile più sommesso, straniato ma estremamente credibile. Entrambi poi riservano nuovi guizzi espressivi nei monologhi, laddove si mettono a nudo con feroce realismo.
D’altronde la mano registica di De Rosa, artefice in passato di lavori molto coraggiosi e innovativi quali, ad esempio, quell’indimenticabile Elettra di Hugo von Hofmannsthal che gli spettatori ascoltavano attraverso una cuffia stereofonica (2015), si affida totalmente a loro, ai loro gesti, ai loro approcci sensuali, ai loro sguardi. E a un misterioso grido che sopraggiunge ogni tanto da un altrove indefinito. Questo verso – quasi il lamento di una giovane vita ammalata – prepara ovviamente l’agnizione finale, che è poi una doppia rivelazione e che espone la donna a una fragilità senza dubbio drammatica.
Tuttavia, in questo finale pare annidarsi una nota di prevedibilità che rischia di abbassare la tensione del testo. Gli esiti del gioco sembrano spingere la storia, prima tutta vibrante e allusiva, su una prospettiva più realistica, naturalistica, pur lasciandole una piega vagamente pirandelliana e pur se si avverte un ritorno all’ambiguità negli ultimi istanti della pièce. Fuggito via dopo aver saputo ciò che Mariella serbava in segreto da tempo (appunto), Aristide ritorna in scena. Come se i ricordi, risvegliati dal tempo presente di quell’incontro, avessero provocato in lui una katastrophé, una presa di coscienza degna dei più grandi personaggi tragici del teatro moderno. Il finale, dunque, non può che restare aperto. E non può che mandarci a casa con l’inquietante consapevolezza che le tante domande sollevate in questa Autobiografia erotica (e non solo) riguardino la parte più profonda di ciascuno di noi.
AUTOBIOGRAFIA EROTICA
di Domenico Starnone
Con Vanessa Scalera, Pier Giorgio Bellocchio
regia Andrea De Rosa
produzione Cardellino srl
Piccolo Eliseo, Roma
3-12 maggio 2019