ROBERTA RESMINI | «Che bizzara cosa la vita – questo misterioso congegnarsi di implacabile logica in vista di uno scopo tanto futile. Il piú che se ne possa sperare è una certa qual conoscenza di se stessi – che giunge troppo tardi – e una messe di inestinguibili rimpianti». È la voce del marinaio Marlow, protagonista insieme al colonizzatore Kurtz del romanzo Cuore di Tenebra, di Joseph Conrad a cui non si può fare a meno di pensare dopo la visione al Teatro Elfo Puccini di Settimo Cielo.

Settimo Cielo, traduzione del titolo originale Cloud 9, è un testo scritto nel 1979 dalla drammaturga inglese Caryl Churchill e portato per la prima volta in Italia grazie alla regia di Giorgina Pi e al collettivo Angelo Mai di Roma. È uno spettacolo difficile da raccontare, perché sono numerosi i piani che si sovrappongono: la famiglia, i rapporti interpersonali, il colonialismo e la critica coloniale, la rivoluzione sessuale, la politica, la Londra punk di fine anni ’70, il potere. Ed è un lavoro che ricalca, per alcuni versi, i contenuti e la struttura dell’opera conradiana, ambientata in parte nella Londra di fine ‘800 e in parte nell’Africa lungo le rive del fiume Congo.

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Foto Futura Tittaferrante

La pièce si articola in due atti. Nel primo ci ritroviamo immersi in una nebbia che ricorda le foreste nebulose delle regioni tropicali. Una scritta al neon sullo sfondo riporta la localizzazione dell’azione: Africa 1879. Clive (Marco Spiga), funzionario coloniale e patriarca, viene inviato con sua moglie Betty (un uomo, Alessandro Riceci), i due figli Edward (una donna, Tania Garribba) e Victoria (una bambola), la governante Ellen (Sylvia De Fanti) e la suocera Maud (Aurora Peres) alla conquista di nuove terre e a civilizzare i selvaggi locali. I personaggi sono seduti, insieme alla signora Saunders (rappresentata nuovamente dalla De Fanti), all’avventuriero Harry (Marco Cavalcoli) e al servo di colore Joshua (un uomo bianco, Lorenzo Parrotto), su due panchine addossate ai due lati del palco e si alzano a turno per conquistare il centro della scena, allestita con quattro poltroncine rosse che sembrano quelle sulle quali siede la platea (sarà una scelta casuale?). La prima ad alzarsi è Ellen, che intona un potente Rule Britannia, inno del colonialismo, una scelta felice della regista Giorgina Pi nonché una citazione di Jubilee, pellicola del 1978 diretta da Derek Jerkman. In fondo al palco man mano che l’azione prosegue si va gonfiando un grande mappamondo con i confini dell’impero coloniale britannico (altra citazione del film).

Quello che viene rappresentato è un mondo apparentemente ordinato, con una precisa gerarchia di potere: la Gran Bretagna su tutti, il marito sulla moglie e sui figli, i padroni sui servitori, i bianchi sui neri, i seduttori sui sedotti. In realtà appare evidente fin dalle prime battute e dalla mescolanza dei ruoli come questa rigida gerarchia sia farraginosa, tant’è che i seduttori vengono sedotti e i colonizzati portano avanti di nascosto i loro reali interessi.

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Foto Futura Tittaferrante

Nel secondo atto l’insegna ci informa che siamo nella Londra del 1979. Sul palco due panchine bianche coperte da graffiti, una batteria e una chitarra elettrica. Ancora una volta la nebbia avvolge la scena (e gli spettatori) e ancora una volta i personaggi stanno seduti ai lati del palco e, a turno, si alzano per entrare in scena. Tra il primo e il secondo atto sono passati 100 anni, ma la Churchill si prende la licenza di scindere il piano cronologico da quello narrativo, catapultando i personaggi un secolo dopo, nel 1979 appunto, ma facendoli invecchiare solamente di 25 anni.

Betty, questa volta interpretata da una donna (De Fanti), ormai di mezza età, ha deciso di lasciare il marito; la figlia Victoria (Tania Garribba) è sposata con Martin (Cavalcoli), un uomo nevrotico e maschilista, ma a un certo punto cede alle avances di Lin (Peres), l’amica lesbica e un po’ punk che ha una figlia piccola, Cathy (Parrotto) e un fratello militare a Belfast. Edward (Riceci) vive con il suo compagno Gerry (Spiga), ma quest’ultimo non si accontenta di lui, soprattutto perché Edward, in quanto impiegato pubblico, non può esternare la sua omosessualità.

In questo secondo atto, in un girotondo di adulteri reali e immaginati, emergono tutte le fragilità dei personaggi, le loro frustrazioni, i rimpianti. Sono tutti confusi e irrisolti. Confusione che si ripercuote anche sulla sala: la Churchill, nota per il suo stile teatrale non naturalistico, che la rende un’esponente autorevole del teatro epico brechtiano, riesce, con questo lavoro, a produrre nello spettatore un forte effetto di straniamento dalla vicenda narrata. Gli attori sono molto abili a recitare la parte dei personaggi senza troppa immedesimazione, anche perché i numerosi ruoli previsti dal testo sono ripartiti solamente tra sette attori, di conseguenza uno stesso attore si trova a dar voce ad almeno due personaggi (in alcuni casi a tre), con una mescolanza di ruoli maschili e femminili che alimentano un certo distacco nel pubblico.

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Foto Futura Tittaferrante

I costumi (a cura di Gianluca Falaschi) ingombranti e fuori contesto contribuiscono allo scopo, tuttavia trascendono quasi nella goffaggine e nel grottesco, soprattutto per la Betty del primo atto che indossa una gonna in tulle rosa che ricorda i tutù dei saggi di danza e per l’adolescente Edward che recita tutto il primo atto con un grosso simbolo fallico disegnato con un pennarello sull’intimo, quasi a gridare al pubblico che lui è un maschio (anche se il suo genere appartiene all’universo femminile).

È un testo ironico e irriverente nelle intenzioni della drammaturga, che ridicolizza tanto l’ideologia patriarcale quanto quella imperiale. L’ironia non manca di certo nella rappresentazione di Giorgina Pi, basti pensare alla bandiera dell’Inghilterra disegnata sull’intimo di Ellen o al carretto dei gelati con dipinto il volto della Thatcher – che peraltro ci ricorda l’inizio dell’epoca della Donna di Ferro e di conservatorismo politico e sociale dopo gli anni della rivoluzione sessuale.
La materia drammaturgica è pregevole, tuttavia alla rappresentazione manca un certo ritmo, i personaggi sono per lo più statici, i movimenti stanchi e lenti. Neppure le luci (a cura di Andrea Gallo), prevalentemente gialle, ma che non mancano di colorarsi di rosso e di blu, e le musiche riprodotte live, riescono a tenere alta l’attenzione, riducendo, in alcuni tratti, l’efficacia dei messaggi che vengono portati in scena.

Ciò che resta è comunque un testo che, pur se scritto nel 1979, risulta essere di forte attualità. Che stimola una riflessione su quanta strada si debba ancora percorrere per una piena conquista dei diritti (come il diritto al matrimonio o alla genitorialità per le coppie omosessuali), soprattutto in presenza di movimenti politici e sociali conservatori. Che interroga sulla necessità di non predestinare la vita dei bambini in base al loro sesso di nascita, perché l’identità di genere è una questione più sottile e più complessa, che non può essere risolta esclusivamente in maniera binaria. Ma, soprattutto un testo che invita a conoscersi in profondità, a ritagliarsi la strada per poter essere ciascuno pienamente padrone delle proprie scelte, nonostante la spinta al conformismo; per rifuggire i rimpianti rievocati dal marinaio Marlow a bordo della Nelli ancorata sul Tamigi.

SETTIMO CIELO

di Caryl Churchill
traduzione Riccardo Duranti
regia e scene Giorgina Pi
costumi Gianluca Falaschi
luci Andrea Gallo
ambiente sonoro e dimensione musicale Collettivo Angelo Mai
con Marco Cavalcoli, Sylvia De Fanti, Tania Garribba, Xhulio Petushi, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Marco Spiga
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in collaborazione con Sardegna Teatro, Angelo Mai/Bluemotion

Teatro Elfo Puccini,
7-12 maggio 2019