ROBERTO RIZZENTE | C’è un legame specialissimo tra l’Etiopia e Israele. Non tanto, o non solo, per gli interscambi tra i due popoli – il piccolo cortile d’ingresso nel Santo Sepolcro, a Gerusalemme, è gestito dalla Chiesa Copta Etiope; in Etiopia vive una minoranza di falascia, gli ebrei neri, etiopi di religione ebraica (li ho incontrati a Wolleka, vicino Gondar), benché siano stati oggi in gran parte trasferiti in Israele – ma per la presenza, nello Stato Africano, nientemeno che dell’Arca dell’Alleanza, contenente i dieci comandamenti dettati da Dio a Mosé di ritorno dall’Egitto, sul Monte Sinai.
Quella dell’Arca è più di una leggenda: scomparsa da Gerusalemme (dal VI secolo a.c, secondo la Storia, ai tempi della conquista babilonese), sarebbe stata donata dal re Salomone al figlio Menelik I, avuto dalla regina di Saba, e da questi portata in patria. E sarebbe custodita, sempre secondo la tradizione, nella cappella del Complesso delle Chiese di Santa Maria di Sion, ad Aksum. Ho avuto modo di vederla: l’architettura, con quella cupola slanciata, ricorda vagamente una moschea. Nessuno può entrarci, solo un monaco, “condannato” a rimanervi per il resto dei suoi giorni.
Vera o falsa che sia, la leggenda dell’Arca impregna la vita politica e spirituale del popolo etiope. Fa mostra di sé, l’Arca, sulle corone dei re che si sono succeduti, da Menelik I fino all’ultimo negus, il nemico di Mussolini, Hailé Selassiè. Sostanzia l’architettura delle chiese, nella tripartizione tra Meqdes, il Sancta sanctorum dove è custodito il Tabot con la copia dell’Arca, cui solo i sacerdoti e i diaconi possono accedere; il Qeddist, riservato ai comunicandi; e la Qenie Mahlet, il posto dei cantori. E accompagna, da ultimo, le grandi feste religiose, il Timkat, il Natale, quando il Tabot viene portato in processione, coperto da un panno, tra canti di giubilo, balli e preghiere, quasi fosse la Torah, durante il Bar Mitzvah. È un potente simbolo, l’Arca, che circoscrive l’identità del Paese, proteggendola nel tempo dalle infiltrazioni delle nazioni musulmane limitrofe, e agglutinando le tante etnie – tigrini, amara, oromo, sidama, somali… – presenti sul territorio.
Ho avuto la fortuna di assistere, venti giorni fa, il 27 aprile, a una di queste cerimonie: la Fasika, la Pasqua copta. Mi trovavo a Gondar, la Camelot d’Africa, famosa sì per la Cittadella voluta dall’imperatore Fasilidas, quando Gondar divenne capitale, nel 1636, ma anche per i 135 cherubini alati dipinti sul soffitto della Debre Berhan Selassie. Il sabato sera prima di Pasqua la cattedrale era gremita di persone. Sistemate non come in Occidente, sulle panche, impettite, come fossero a una rappresentazione teatrale, con il sacerdote nei panni del performer di turno. Era una chiesa che vibrava, c’erano famiglie, vecchi, bambini, venute dalla campagna, sdraiate sul prato. Le vedevi nel buio, avvolte nella sciamma, la toga bianca maschile, figure caravaggesche illuminate da una candela, intorno a un libro. I più si accalcavano nel Qenie Mahlet, in piedi o stesi a terra, in silenzio: l’unica voce era quella del sacerdote dall’interno della basilica: la sua litania in ge’ez – l’antica lingua etiope, nata in Eritrea dall’incontro con le popolazioni arabe meridionali – era precisa e martellante, intervallata dai cori degli astanti.
Ho tolto le scarpe (un’usanza tutta etiope, che rivela la commistione con la cultura musulmana) e sono entrato: riconoscendomi straniero, tutti mi hanno fatto passare. Non c’è aggressività in questa gente, gli sguardi sono sereni, antichi, biblici. È in quel momento che hanno iniziato a suonare i tamburi. I Negarit, come li chiamano da questa parte del mondo: stretti alla base, allargati in superficie, come un imbuto, rappresenterebbero, secondo una guida locale, l’Antico e il Nuovo Testamento.
Ma l’emozione più grande è arrivata poi. Allo scoccare della mezzanotte sono state accese le candele. Avevo osservato lo scambio delle fiammelle a Gerusalemme, durante una messa presso la comunità armena, come segno di pace al momento della comunione, ma non con questa gioia: è la Resurrezione del Salvatore, mi hanno detto, in un inglese stentato. La basilica è esplosa di luce, le persone custodivano queste candele come l’Andrej Gorčakov di Nostalghia: concentrate perché non si spegnessero, quasi fossero la cosa più preziosa del mondo, La festa era, a questo punto, cominciata, e sarebbe durata fino alle tre di notte.
Ne ho assaporato l’atmosfera, il senso d’incombenza e di assoluta necessità. La fede profonda di queste persone, la pace che gli sguardi sono in grado di trasmettere, la fiduciosa attesa sono il ricordo più bello che mi porto dall’Etiopia, e che in questo reportage ho cercato di comunicare.
© Photo by Roberto Rizzente