ESTER FORMATO | «La mente è un intestino elettrico» proclama Danio Manfredini su un palcoscenico spoglio dove la sua memoria ha letteralmente luogo, secondo una suggestiva narrazione che si alterna con la sua stessa voce in off. Una sorta di dialogo con la propria anima. Ma definirlo dialogo è molto riduttivo. Più che altro l’impressione è che Luciano sia una creazione della mente dell’artista, un viatico a cui prestare voce e corpo, in un fluire di pensieri che mano a mano perdono di consistenza. Complice è anche un linguaggio che tende verso una progressiva disarticolazione, frantumandosi dinanzi all’impotenza nei confronti della vita che sembra che «sia scappata da tutti».
Un limite, un solco fra lucidità e follia è quel che dinanzi ai nostri occhi traccia l’artista, affinché la mente, questo intestino elettrico, diventi visione attraverso il teatro, il solo in grado di rappresentarne i rigurgiti che, come quadri animati, si affastellano in una sequenzialità il cui principio logico diviene minuto dopo minuto inafferrabile. Luciano cerca questo principio, fruga nella sua testa ormai svuotata di ogni connessione con il mondo concreto e circostante. Si appella a esso, ma sa che è gli è sfuggito già da tanto.
A partire da un ospedale psichiatrico i cui pazienti si prestano a buffi ruoli, quale frutto paradossale della loro malattia, il personaggio di Manfredini, anch’egli parte di questo microcosmo, intesse una tela di ricordi labili, furtivi, che passano al setaccio di quall’assenza di realtà di cui è affetta la sua testa. Il suo un corpo quasi molle, dagli abiti dimessi; non è un personaggio tragico, ma sottilmente grottesco. Brandelli di vita (e di vite) ai margini, in squallidi luoghi metropolitani, prendono vita sequenza dopo sequenza.
L’intestino elettrico – la mente – è colto, perciò, al momento del suo cortocircuito, l’essenza di ciò che resta di una vita viene disciolta in rime rocambolesche. Luciano abbandona il linguaggio comune, riaffiora la poesia perché forse la rima è l’unico filo logico cui è appigliata la sua stessa mente.
La memoria, dunque, ciondola fra i bagni reietti di una stazione frequentati da omosessuali che si prostituiscono e un cinema porno, un luogo che ricorda Cinema Cielo in cui iconografie simili e marginalità sociale erano già chiaramente presenti.
Un immaginario caro a Manfredini e così vivido a tal punto da essere mezzo di espressione della sua poetica, è presentato però qui in maniera diversa. Il discorso si fa rarefatto e riflessivo; non è presente nessuna coralità, anzi, ciò che si consegna allo spettatore è una sorta di cantico nostalgico verso un mondo di frammenti del reietto ed dell’osceno, e che, tuttavia, appare come prospettiva di recupero di una parola poetica. E se è vero che la contemporaneità ha modificato quegli stessi luoghi, spogliandoli di quella nostalgia quasi pasoliniana che per decenni li aveva contraddistinti, lasciando loro oltre che il dolore, solo uno squallore insensato, Dario non esita a ricomporre quei poveri cristi come fossero arte, corpi caravaggeschi.
Per Manfredini i singoli quadri dello spettacolo diventano autentiche sequenze visive; una mimesis chiara, affidata a banali, oseremmo dire, dialoghi di personaggi ai margini, (il rapporto fra transessuali e i loro clienti, per esempio) che produce, proprio attraverso dinamiche banali, un senso di totale desolazione. Del resto, la scena priva di qualsivoglia orpello superfluo, indica continuamente nella sua essenzialità i non-luoghi nei quali l’umanità, benché brulicante, viene privata della partecipazione alla vita.
Luciano, dal canto suo, non fa altro che attraversare le scene, ci passa, ci ripassa, vi si pone ai limiti come possente voce extradiegetica, trapassandone la cognizione spazio temporale a mo’ di fantasma in un universo frammentato, difficile da ricomporre. Resta come agli orli della propria memoria, e forse per questo che lo spettacolo nel complesso non ha nessuna pretesa di consegnare allo spettatore un racconto coerente. Infatti, se le singole scene contemplano una narrazione lineare al loro interno, è nel loro assemblaggio, nell’insito richiamo a liricità e iconografie dolorose, che il pubblico si scopre un viaggiatore in un mare in tempesta.
È chiaro come la follia qui – e in molto del teatro di Manfedini – sia il filtro fondante di ciò che viene narrato allo spettatore, quasi che senza di essa, non fosse possibile accedere a un mondo interiore. Per l’artista allora, la follia pare essere via imprescindibile, maniera immediata di giungere a contatto con ciò che è davvero umano. Così, se da un lato il materiale umano da cui si attinge ci riporta a realtà teatralmente sdoganate, a trasfigurazioni perduranti da decenni in modo trasversale nella recente storia del teatro, ciò che resta dello spettacolo sono sensazioni. Quella predominante è di assistere a un delirio della parola che si disarticola progressivamente, mentre fa da contrappunto la concretezza di non-luoghi di emarginazione nei quali chi sta per abbandonare la ragionevolezza di una comune esistenza, sa di essere confinato. Una sforbiciatura che ha lo sguardo malinconico di chi ha dinanzi la prosaicità della vita e della sua disperazione, ma che il bilico di una mente quasi evanescente ha il pregio di rendere onirica, quasi irreale, perché è di poesia che si può nutrire una mente disperata. È il verso, è la rima che entra nelle profondità del dolore e riesce a trasformarlo in lingua teatrale.
LUCIANO
ideazione e regia Danio Manfredini
con Ivano Bruner, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Darioush Forooghi, Danio Manfredini, Giuseppe Semeraro aiuto regia Vincenzo del Prete
ideazione scene e maschere Danio Manfredini
realizzazione elementi di scena Rinaldo Rinaldi, Andrea Muriani, Francesca Paltrinieri
disegno luci Luigi Biondi
fonico Francesco Traverso
mixaggio colonna sonora Marco Maccari – Peak Studio Reggio Emilia produzione La Corte Ospitale
coproduzione Associazione Gli Scarti, Armunia centro di residenze artistiche Castiglioncello – Festival Inequilibrio
Teatro Elfo Puccini, Milano
26 maggio 2019