LAURA BEVIONE | Non capita quasi mai che il pubblico si divida esplicitamente – e rumorosamente – fra sostenitori e detrattori dello spettacolo cui sta assistendo, applaudendo o “buando”, alzandosi in segno di ammirazione ovvero andandosene rumorosamente. Nella “cortese” Torino, poi, questo avviene davvero molto raramente, quasi come se il rito teatrale avesse perso la sua vitalità, il suo aggancio con la realtà vera degli spettatori, ridotti a passivi officianti.
Un primo merito del nuovo spettacolo di Antonio Latella, L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi, prodotto dallo Stabile di Torino, è proprio quello di risvegliare dal torpore il pubblico, costringendolo a prendere una posizione: la neutralità è bandita, o si è pro o si è contro il Bonaventura del regista campano, è inevitabile schierarsi. E, dunque, nella serata in cui abbiamo assistito allo spettacolo, il Carignano ha preso vita e, come a una prima della Scala, c’era chi applaudiva in piedi, chi fischiava e chi si godeva una pizza dopo aver lasciato il teatro durante l’intervallo…
Ma perché non si può ( e vivadio!) rimanere indifferenti allo spettacolo che Latella, insieme a Linda Dalisi, ha tratto dalla commedia musicale che Sto – il mirabile artista del teatro Sergio Tofano – ricavò, insieme a Nino Rota, dai suoi fumetti? Un testo cui il regista è legato “sentimentalmente”: ad appena diciotto anni recitò nella messinscena del testo diretta da Franco Passatore, proprio sul palcoscenico del Carignano.
Da allora sono passati più di trent’anni e, poiché il tempo trascorso non si può ignorare né si può pensare di mantenere sempre uguali realtà passate – e ,d’altronde, è la nostra stessa memoria a rielaborare e rinarrare costantemente il tempo “perduto” – Latella non rifà la commedia di Sto-Rota alla maniera di Passatore, ma la re-inventa, alla luce di quanto avvenuto nella sua esistenza, nello scivolare lento ma inesorabile dalla giovinezza alla maturità. Il suo spettacolo non può, quindi, essere rivolto ai bambini ma necessariamente ad adulti che, nondimeno, non hanno completamente sepolto il “fanciullino” che è in loro e, anzi, ne ricercano quasi con disperazione la voce.
Ecco allora il primo slittamento: Bonaventura (Francesco Manetti) – è seduto su una sedia a rotelle, è anziano, il suo corpo ha perso il proprio dinamismo ma la sua memoria brulica di fantasmagorici ricordi. Accanto a lui il fedele Bassotto (Alessio Maria Romano) con il quale il protagonista forma una coppia quasi beckettiana; ma non si tratta che di un somiglianza superficiale, ché è assente il disperante pessimismo dell’irlandese. Qui c’è, piuttosto, la certo dolorosa ma non sconfitta volontà di far rivivere la gioia provata, l’allegria e la fantasia con le quali il protagonista era abituato a costruirsi e narrarsi l’esistenza.
All’inizio del primo atto egli è in proscenio, sullo sfondo una grigia parete con un oblò sulla destra a suggerire la sagoma della Teresina, la nave sulla quale Bonaventura è imbarcato. Accanto a lui il Capitano (Isacco Venturini) e il Bassotto. Con tono monocorde Manetti/Bonaventura racconta l’inganno con cui il “cattivo” Barbariccia lo ha spinto a riprendere la via del mare, solleticandone lo spirito d’avventura più che l’avidità, con il miraggio di un favoloso tesoro. Una narrazione in cui i significanti paiono contare più del significato, l’ansia e la frenesia di Bonaventura più dell’intelligibilità, a testimoniare di quell’interesse per il verso che contraddistingue i lavori più recenti di Latella, quale l’Aminta. Qui non sono più le ottave tassiane bensì le rime baciate, le assonanze, l’andamento da filastrocca in cui Sto era maestro.
E in rima parlano, ovviamente, anche l’indigena Giuiuk (Barbara Mattavelli) e i suoi pappagalli, coloratissimi abitanti dell’isola in cui approdano Bonaventura e i suoi compagni. La ragazza, che scopriremo essere una finta «negra» – ai tempi di Tofano non esisteva il politically correct – aiuta il protagonista a fuggire dai temibili antropofagi che dominano l’isola e ottiene in cambio la possibilità di raggiungere la mitizzata Europa.
E, nella seconda parte, il continente più civilizzato del globo si rivela nella sua contemporanea indifferenza: il palcoscenico è tramutato in una spiaggia, con ombrelloni e svariati manichini di uomini e donne, il tutto color grigio-nero, mentre sullo sfondo si intravede la nuda parete di fondo del palcoscenico.
Un paesaggio desolato nel quale Bonaventura, non più in sedia a rotelle, pare avere finalmente riconquistato il proprio passato. Accanto a lui gli altri attori, in completo bianco sul quale è cucita la figurina del personaggio da loro interpretato: Leonardo Lidi è il “bellissimo” Cecé; Caterina Carpio la Governante che riconoscerà in Giuiuk la figlia perduta, in una scena di agnizione ironicamente da manuale; Michele Andrei nei panni di Scarlattina; Marta Pizzigallo la vezzosa Rosolia, innamoratasi, ricambiata, del Capitano.
Gli attori – tutti mirabilmente generosi ed eclettici – posano per bizzarre foto ricordo, intonano cori su un repertorio assai vario che comprende pure Vamos a la playa, conducono avanti la trama della commedia scritta da Sto ma un po’ controvoglia, un po’ chiosando, quasi che le loro azioni appaiano note di regia tradotte in viva pratica teatrale. Latella, così, traduce in azione il lavoro di reinterpretazione del testo compiuto insieme a Linda Dalisi e ai suoi attori, mostrando quanto tutto ciò che avviene sul palcoscenico sia il frutto di quell’inevitabile ripensamento del Bonaventura alla base dello spettacolo.
Una rilettura che ha contrariato parte del pubblico, probabilmente indispettito da uno spettacolo che, programmaticamente, non mira a ricreare identico in scena l’immaginario di Sto, ossia non è interessato a un’operazione che risulterebbe archeologico-filologica, bensì indaga quanto di quell’immaginario sopravviva oggi e in quale forma. La poetica di Latella – è stato così in Arlecchino e, in modo magistrale, in Natale in casa Cupiello – ci pare voglia portare in luce quanto negli autori del passato è sottinteso, per convenienza ovvero perché inconsciamente latente; e quanto, ancora, la loro parola è in grado di suscitare, in forma di riflessione non superficiale, nei contemporanei, a partire dal regista stesso.
Nel caso di Bonaventura, la nostalgia di uno stupore infantile che pare essersi inaridito; la fantasia che, manipolando la realtà e, in primo luogo, la sua memoria, ci consente di tenere a bada la disperazione; l’ansia e la frenesia per combattere l’esiziale declino del nostro davvero “vecchio” continente…
Alla fine, poi, non resta che la nudità del palcoscenico – i manichini dei bagnanti sono portati via – e la viva carnalità degli attori che certo spiazza rispetto alla rassicurante bidimensionalità dei personaggi dei fumetti.
Latella, indubbiamente, chiede molto al suo pubblico, in primo luogo mettere da parte un’immagine del personaggio Bonaventura ereditata dall’infanzia: qui egli non è certamente il surreale uomo in bianco e rosso che se ne va in giro con un bassotto giallo e, alla fine delle sue avventure, viene sempre premiato da un milione – e, al proposito, vale la pena sottolineare come questa sia l’unica avventura in cui, anziché con la mitica banconota, il protagonista è premiato con uno scrigno colmo di perle. Il Bonaventura del 2019 non può che essere un uomo anziano, una creatura incapace di vivere nel presente e nostalgico di una gloria oramai passata. Un uomo, un continente, un paese, una società: non vi dice niente sulla nostra piccola patria?
Ma, al di là della riflessione socio-politica in fondo estranea alla poetica di Latella – benché sonoramente implicita –, è la richiesta di un’attenzione non passiva, di una costante revisione di archetipi e di verità assodate, che suscita l’attiva reazione del pubblico, nel bene e nel male. E, d’altronde, non è questo che il teatro dovrebbe fare? Porre interrogativi, stimolare pensieri, ricalibrare equilibri…
L’ISOLA DEI PAPPAGALLI CON BONAVENTURA PRIGIONIERO DEGLI ANTROPOFAGI
di Sergio Tofano e Nino Rota
adattamento Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
luci Simone De Angelis
progetto sonoro Franco Visioli
interpreti Michele Andrei, Caterina Carpio, Leonardo Lidi, Francesco Manetti, Barbara Mattavelli, Marta Pizzigallo, Alessio Maria Romano, Isacco Venturini
musicisti Federica Furlani, Andrea Gianessi, Alessandro Levrero, Giuseppe Rizzo
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro Carignano, Torino
30 maggio 2019