LAURA NOVELLI |Due testi molto diversi l’uno dall’altro. Strutturalmente quasi antitetici. Animati però da una comune intenzione: indagare, con uno sguardo sghembo e persino crudele, il dolore che si annida dentro i rapporti familiari, le relazioni di coppia, i legami parentali e amorosi. Dolore che sembra quasi imploso nella pièce Non mi ricordo più tanto bene e che, viceversa, deflagra nella barbarie più indocile in Scene di violenza coniugale. Autore di entrambe le opere (pubblicate da Cuepress nel volume Ricomporre l’infranto, con prefazione di Attilio Scarpellini) è l’anglo-francese Gérard Watkins, celebre e pluripremiato drammaturgo-attore-regista-musicista cinquantacinquenne al quale la scena romana ha tributato un focus che ha proposto la messinscena del primo titolo al teatro India e l’allestimento del secondo in un appartamento di Via del Campo Boario, dove sono stati ospitati venti spettatori alla volta. Due lavori anch’essi molto diversi tra loro. Sebbene entrambi lascino in eredità al pubblico un carico di riflessioni e pensieri estremamente fertili, catturandolo ora in un marchingegno raffinato che racconta un confronto/scontro generazionale fuori tempo massimo; ora in un massacro domestico che puzza di cronaca nera, di abusi fin troppo taciuti e di necessaria, umanissima denuncia.
A firmare la regia di Non mi ricordo più tanto bene (prodotto dal Teatro di Roma) è lo stesso Watkins, che si avvale della collaborazione della coreografa Silvia Rampelli e della traduzione di Monica Capuani.
Uno spazio vuoto con un letto al centro, un muro e un tavolo fuori scena (tutto molto stilizzato). Lo abitano un anziano in pigiama (Antoine D./Carlo Valli), un uomo di mezza età che interroga il vecchio con un fare quasi scientifico (Didier Forbach/Gianluigi Fogacci) e una giovane ragazza dai capelli lunghi (Céline Brest/Federica Rosellini), che prorompe in scena dalla platea portandosi dietro un alone di mistero. A ben vedere, questo senso di sospensione, indeterminatezza e mistero aleggia dominante sull’intera situazione. Chi sono? Dove sono? Perché si trovano lì? In quale relazione si pongono i tre personaggi tra loro e con il pubblico? Il testo, insomma, tradisce sin da subito la sua natura enigmatica. Capiamo che il vecchio è malato, probabilmente affetto da Alzheimer; egli stesso dice di non ricordare nulla della propria storia personale (è sicuro di avere 96 anni e due figli piccoli) e di possedere invece una vivida memoria della Storia, quella con la S maiuscola. Quella Storia che ha insegnato per anni rivolgendo al passato ogni energia e smarrendo, però, il senso del proprio vissuto, il senso biologico della propria paternità.
In fondo, ciò cui assistiamo nel sobrio ma incisivo disegno luci di Gianni Staropoli (curatore anche dello spazio scenico), non è altro che un processo. Un processo condotto dapprima su un registro clinico-sperimentale, poi addolcito nei toni di una “recita” ben costruita, all’interno della quale i due protagonisti più giovani giocano a fingersi altri da sé per cercare di ricostruire l’identità propria e dell’anziano signore in pigiama. Un processo che svelerà solo alla fine il legame reale (e di legame di sangue si tratta) che tiene insieme le tre figure: Attori chiamati a proiettare nella strana vicenda di Antoine D. la loro stessa memoria allenata dalla professione e, al contempo, il loro desiderio di rivendicazione generazionale. La mancanza del vecchio non è dunque una patologia fisica quanto il laccio sfibrato di una fuga affettiva che il teatro può sviscerare e rielaborare, ma non certo guarire.
Pertanto il vuoto di memoria di cui Antoine è affetto sembrerebbe alludere non solo alla malattia ma anche, soprattutto, agli slittamenti sentimentali, ai silenzi, agli addii, alle incomprensioni che governano il nostro stare – o non stare – nella vita di chi amiamo. Proprio come l’Attore sta dentro il suo personaggio in virtù non tanto dei pieni (verbali e agiti) che lo connotano quanto dei silenzi, delle pause, degli interstizi tra un dire e il successivo, un fare qualcosa e un non fare niente. E se la raffinatezza di questa scrittura, per molti versi quasi pirandelliana, necessita di un’approfondita lettura (e rilettura), la pièce che ne deriva, abilmente diretta dall’autore e altrettanto abilmente interpretata dal cast, pur non scampando del tutto al rischio della ripetitività e dell’eccessiva lentezza, apre un duplice scenario di riflessione: da una parte, appunto, la memoria e il suo ruolo nella costruzione di qualsiasi identità; dall’altro la natura fisiologica della recitazione, che deve essere sempre e comunque ricerca di verità (come d’altro canto ci insegna l’incantevole Elvira di Jouvet/Servillo andata in scena all’Argentina pressoché in contemporanea a Non mi ricordo più tanto bene).
Di tutt’altro respiro Scene di violenza coniugale, diretto da Elena Serra per il Teatro di Dionisio (traduzione anche qui di Monica Capuani) con Roberto Corradino, Clio Cipolletta, Alberto Malanchino e Annamaria Troisi interpreti. Il pubblico si ritrova nell’accogliente giardino di una palazzina d’epoca in zona Piramide. Poco prima dell’inizio dello spettacolo, viene condotto dalla stessa regista nel salone semivuoto e ben arredato dove si svolgerà la pièce. Gli attori sono già seduti su un divano rosso e ci sono buoni presupposti per intuire che la loro vicinanza a chi li guarda/ascolta sarà un valore aggiunto dello spettacolo. Un’occasione di lenta e progressiva condivisione dei fatti. Un motivo in più per sentirci tutti parte in causa, testimoni cui è negata ogni facile indifferenza.
Si è detto ‘lenta e progressiva condivisone’ perché la struttura dell’opera, in questo caso, è avvicinabile alla paratassi cinematografica e/o televisiva: un affastellarsi di scene nel corso delle quali si assiste alla nascita di due relazioni amorose – quella tra i proletari Liam e Rachida (Malanchino/Troisi) e quella tra i borghesi Annie e Pascal (Cipolletta/Corradino) –, al loro naturale sviluppo e, con una capriola drammaturgica inattesa, al loro atroce epilogo violento.
Non più dunque le contorsioni di un enigma quanto, invece, la compostezza solo apparente – e destinata, giocoforza, a scomporsi – di una storia realistica che ondeggia tra parabola moraleggiante, recriminazione sociale e tragedia classica per raccontarci il femminicidio nella sua inaudita, irragionevole e bestiale crudeltà.
Per la stesura di questa pièce, Watkins ha lavorato a lungo con avvocati, medici, psicologi, psichiatri, forze dell’ordine, assistenti sociali; ha letto denunce e deposizioni senza mai avere, però, un contatto diretto con le vittime. Pertanto il lavoro, inserito in un più ampio progetto sul femminile molto caro al Teatro di Dionisio e a Michela Cescon, nasce da una ricerca di stampo sociologico ma prende poi la strada di una scrittura a più livelli che non rinuncia a toni filosofici e aperture simboliche. Sullo sfondo c’è Parigi. Una Parigi periferica, cosmopolita, contradditoria. Nei rivoli di queste contraddizioni contemporanee si formano le due coppie: il tossico e sbandato Liam trova nella saggia studentessa Rachida, musulmana di origine algerina, la sua oasi di quiete e buon senso; la nevrotica Annie, single con due figli a carico e pochi soldi, vede in Pascal, fotografo dai gusti ben definiti, un solido gancio alla concretezza della vita.
Nella prima parte del lavoro gli interpreti – tutti bravi anche se forse un po’ sovraesposti – recitano alternativamente, scanditi dal battito delle mani della regista che guida i diversi passaggi da una storia all’altra. I quattro protagonisti non lasciano mai la sala. Ci inchiodano alle loro vicende. Parlano vicinissimo al pubblico. All’inizio appaiono persino romantici, emozionati di amare e ancora nulla lascia prefigurare quanto di drammatico succederà in seguito. Quando cioè la sopraffazione psicologica, l’aggressività fisica e sessuale, l’ossessività morbosa e ripugnante faranno il loro ingresso nella convivenza quotidiana delle coppie, condannando le due donne a una violenza ferina e dis-umana.
Nella seconda parte, molte scene di questa violenza carnale, sanguinaria e perversa, la regista (angelo della morte incappucciato) decide di spostarle “altrove”, in un “fuori-scena” da cui provengono grida e lamenti lancinanti, soprattutto nella trama che riguarda Annie e Pascal. Così facendo, crediamo intenda negare allo sguardo ciò che lo sguardo non potrebbe sostenere. E, cercando un legame forte con la classicità, insinua nel bel testo di Watkins l’idea di una catarsi possibile. Purché sia possibile la denuncia.
Non è un caso che alla fine, consumatisi quegli atti turpi e ingiusti, vittime e aguzzini raccontino se stessi e, nel raccontarsi, finiscano col raccontare, per ossimoro, l’afasia, il silenzio, l’omertà che pesa su tante storie comuni, su tante violenze coniugali di oggi e di sempre. Motivo per cui, lavori come questo possono dirsi semplicemente necessari.
NON MI RICORDO PIÙ TANTO BENE
di Gérard Watkins
traduzione Monica Capuani
un progetto di Gérard Watkins
con la collaborazione di Silvia Rampelli
con Carlo Valli (Antoine D), Gianluigi Fogacci (Didier Forbach), Federica Rosellini (Céline Brest)
disegno luci e spazio scenico Gianni Staropoli – assistente alla regia Paolo Costantini
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, PAV
in collaborazione con Le Perdita Ensemble e lacasadargilla
con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea
nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders?
si ringrazia Alberto D’Amico
Roma, Teatro India
20 maggio 2019
SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE
di Gérard Watkins
traduzione Monica Capuani
regia Elena Serra
con Roberto Corradino, Clio Cipolletta, Alberto Malanchino, Annamaria Troisi
produzione Teatro Di Dioniso, PAV
con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno
alla creazione contemporanea
nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders?
Roma, appartamento privato
28 maggio-2 giugno 2019