LAURA BEVIONE | Seduti sul posto che ci è stato assegnato, nel buio della sala, siamo comodi e invulnerabili. Certo, lo spettacolo cui stiamo assistendo ci può coinvolgere ed emozionare, ma noi siamo lì, sicuri, grazie al solipsistico anonimato garantitoci dalla platea teatrale. Se, invece, ci viene proposto di salire su un furgoncino bianco – un vero ferro vecchio, piuttosto sciancato – insieme ad altre sei persone e viaggiare per un’ora e dieci per le strade della nostra città – Torino in questo caso – allora siamo costretti a resettare la nostra consueta modalità di fruizione di uno spettacolo e ad accettare la sfida, ovvero quella di essere realmente “spett-attori”.
Medea per strada è un’esperienza teatrale che immerge i partecipanti – massimo sette, quanti sono i posti a sedere all’interno del furgoncino bianco – nel cuore buio della città in cui è ospitato: a Torino, per quasi tre settimane, nel cartellone del Festival delle Colline.
Partiamo e, appena girato l’angolo, sale sul furgoncino – guidato da Valerio Tambone, gentile e di poche parole – una giovane donna, lunga chioma corvina e trucco pesante, stivali con tacco a spillo, la borsetta e una sacca. È irritata dal traffico cittadino e dal nervosismo di cui esso è, allo stesso tempo, causa e conseguenza, ma dialoga affabilmente con noi, casuali abitatori del suo precario mezzo di trasporto, abbellito solo da tendine dei colori dell’arcobaleno.
L’attrice pugliese Elena Cotugno è questa donna dal sorriso forzato e nervoso, che nasconde con l’ironia un dolore, evidentemente antico e insuperabile. Ma la sofferenza si può ingannare con la parola e allora la donna chiacchiera incessantemente: è romena, nata a Bucarest; poi trasferitasi con la famiglia in un paese di montagna dopo che il padre, insegnante, perse il lavoro perché non disponibile a essere obbediente impiegato del regime. La vita da “dissidente” forzato fin dall’infanzia, l’inno nazionale proibito cantato tutte le sere – e che scarso patriottismo dimostriamo noi viaggiatori allorché, esortati a cantare il nostro inno nazionale, traccheggiamo fra imbarazzo e vergogna. E, poi, imparare a sgozzare il maiale (ricordate tutti i particolari, nulla in questa conversazione è causale) e diventare quasi adulta in un villaggio isolato e retrogrado, da cui fuggire appena se ne presenti la possibilità…
Il terribile viaggio dalla Romania verso l’Europa occidentale, verso l’Italia: ma, prima di arrivare nel bel Paese, a Bari, la sosta in Albania, l’incontro con quell’uomo dai capelli rossi che ne plasma fatalmente la vita successiva.
La donna racconta tutto questo con addolorata naturalezza, scusandosi per le troppe parole, interrogandoci sul nostro lavoro e sulla nostra vita affettiva, guardando pensosa fuori dal finestrino, quasi candidamente sconcertata dall’affannarsi di persone e auto.
Ascolta musica romena dal cellulare, si prepara per il lavoro e, sulla melodia romantica-pop di una nota canzone, si sfila, l’una dopo l’altra, quelle mutandine che sono esplicito contrassegno della professione che un Fato avverso ha scelto per lei.
Divinità capricciose e crudeli hanno stabilito per lei, la straniera, la diversa che ama disegnare – ci mostra i ritratti dei due figli, belli e ricciuti – e parlare, un destino tragico. Ecco allora che, suo malgrado, la donna è stata costretta a tramutarsi in contemporanea Medea ma per lei nessun carro del Sole lesto a portarla in alto, in cielo, lontano dalla follia della terra.
Il racconto arriva dopo la sosta del furgoncino in una zona della periferia nord di Torino, in una delle tante strade della prostituzione della città. La donna parla con calma ma in lei qualcosa sta cambiando, il tono della voce, la postura. Gli abiti da “lavoro” sostituiti da pantaloni casual e scarponcini, il trucco lavato via, la parrucca corvina lasciata in un angolo, il sorriso storpiato in una smorfia di agguerrito sconcerto…
Elena Cotugno e Gianpiero Borgia – ideatore e regista – sono partiti da un’indagine sulla tratta delle schiave del sesso che popolano le strade provinciali e i viali periferici di tutta la penisola – dalla Puglia al profondo Nord – ma non hanno voluto fare “soltanto” uno spettacolo documentario, di mera denuncia di un fenomeno sociale. Ben coscienti che uno spettacolo teatrale non può essere una puntata di Report bensì debba ribadire e sfruttare la specificità del proprio linguaggio e, in primo luogo, la propria natura di specchio fedele ma profondamente riflessivo del reale, i due – insieme al drammaturgo Fabrizio Sinisi – hanno instaurato un dialogo vivo fra la tragedia di Euripide e il fenomeno della prostituzione di donne catapultate in Italia dall’est europeo, dalla Nigeria ma pure dalla Cina.
Ecco, dunque, che la giovane prostituta romena è Medea la straniera; Medea la maga che suo malgrado ripudia la propria famiglia di origine nell’illusione di crearsene una nuova e “perfetta”; Medea che non conosce né condivide convenzioni e morale occidentali; Medea che non ha alcuna intenzione di celare la propria intrinseca follia.
Medea per strada non soltanto ci costringe a guardare da un’altra prospettiva strade che d’ora in poi non ci appariranno più familiari, ma ci spinge con sferzante e cocciuta affabilità a riconsiderare il significato che attribuiamo alla parola “straniero”: colui che ci sorprende nella nostra nudità emotiva e morale, colui che fa esplodere quei risentimenti, istinti, frustrazioni che siamo soliti sfogare pigiando il clacson della nostra automobile prigioniera del traffico.
Medea saremmo tutti noi, se soltanto il Fato non avesse sorriso benevolo alla nostra nascita… Un pensiero che siamo certi di aver condiviso con i nostri sei compagni nel corso dell’ultima parte del viaggio in furgoncino, trascorsa in un assordante silenzio.
MEDEA PER STRADA
ideazione e regia Gianpiero Borgia
drammaturgia Fabrizio Sinisi, Elena Cotugno
progetto scenografico Filippo Sarcinelli
interpreti Elena Cotugno, Valerio Tambone (autista)
produzione Teatro dei Borgia
Festival delle Colline Torinesi – Creazione contemporanea
Torino, 5 giugno 2019