ILARIA COSTABILE | La dodicesima edizione del Napoli Teatro Festival porta con sé l’idea di restituire al teatro quello è sempre stato il suo compito primario: intrattenere riflettendo, concedere all’individuo la possibilità di estraniarsi dalla sua essenza carnifica e approdare invece alla sua spiritualità. I greci la chiamavano catarsi, un termine legato a doppio filo con la psicologia, che richiama quella condizione di purificazione e liberazione dell’uomo dalle sue zavorre, mentali e non, per poter prendere davvero coscienza di sé. Ecco, l’idea alla base del Napoli Teatro Festival, per la terza volta sotto la direzione artistica di Ruggero Cappuccio è proprio questa: concedere alle più disparate espressioni teatrali di stupire, ancora, lo spettatore offrendogli la possibilità di accedere ai tanti mondi che il teatro può creare.

Quale autore, se non Samuel Beckett, potrebbe rendere piena giustizia a questo continuo interrogarsi e indagare l’animo umano in maniera sagace, sibillina e illuminante? Ed ecco che nello scenario ampio e oscuro del Cortile delle Carrozze del Palazzo Reale di Napoli, Costantino Raimondi, nella sua veste registica, mette in scena un racconto e due drammi dello scrittore irlandese.

Primo AmoreUn uomo seduto al centro della scena – che si mostra scarna ed essenziale – con le mani dipinte di nero poggiate sulle ginocchia e lo sguardo perso nel buio della sera accoglie la platea. Un cappello di paglia, vestiti sdruciti, grigi, anonimi e un’aria smarrita sono i tratti che vestono il personaggio del dramma beckettiano, incastrato nel suo presente, ma con un piede affossato nel suo anemico passato. L’unica nota di colore il cubo che funge da seduta e che, quasi a percepire le emozioni, alterna vari toni cromatici a seconda dell’intensità del racconto. Sì, perché prima di diventare un dramma teatrale Primo amore è un racconto, l’esternazione di un pensiero ininterrotto, scaglionato dalle tappe di un vissuto che non si vuole dimenticare, raccontato con disilluso sarcasmo.
Senza identificarsi, l’uomo parla di sé, della sua incapacità di rapportarsi con altri, tanto da preferire i morti come interlocutori, tanto da prediligere le passeggiate nei cimiteri piuttosto che nelle strade, affollate, da inebriarsi dell’odore dei cadaveri denigrando il puzzo dei vivi. L’incarnazione della contraddizione è seduta dinanzi agli occhi attoniti e incuriositi dello spettatore che segue gli intricati ragionamenti dell’individuo (universale) che parla senza remore, senza soste. Tempo e luogo non esistono, e in fondo nemmeno importano, il ritmo della narrazione è scandito da improvvisi rigurgiti di movimento, come lo sbattere ripetitivo degli arti sul corpo, nel cuore di un brevissimo silenzio.
Sergio Longobardi, interprete e nuovo autore del dramma, porta sulla scena la verbosità del testo di Beckett innestandola di interrogativi, di riflessioni argute, illuminanti nella loro dissacrante verità, perché quando l’amore è al centro del discorso, non c’è ragione a cui ci si possa appellare. Primo amore è il racconto di un giovane che rivive l’incontro con Lulù, una donna che poi scoprirà essere una prostituta, alla quale è legato da un amore carnale. Sarà proprio l’interrogarsi sulla natura di un sentimento così effimero a far comprendere all’uomo di nutrire un trasporto nei confronti della donna. «Sarà forse amore platonico, o mi confondo con un’altra cosa?» chiede rivolgendosi al pubblico; eppure questo amore si rivelerà essere un amore di comodo e il frutto di questo amore verrà rinnegato, allontanato dall’uomo che sceglie la solitudine piuttosto che la condivisione. I ricordi vengono esternati con fare sprezzante, come di chi li ha vissuti, ma vorrebbe liberarsene, tanto che lo spettatore avverte un senso di comunanza e distacco ad un tempo: ci si sente simili all’uomo raccontato da Beckett, ma ci vogliamo convincerci di non essere così cinici . Il buio cade, la scena si vuota, il ronzio dei pensieri si esaurisce per lasciare spazio a un vuoto da colmare, una verità da conoscere che alberga nell’incredibile assurdità dell’essere umano, disincantato e anche divertito dal flusso incessante di ricordi e parole.

AttoSenzaParole

Ma se la parola a volte può ammutolire, il silenzio e i gesti possono veicolare più messaggi di quanto siamo abituati a immaginare. In Atto senza parole 1, Costantino Raimondi interpreta la parabola dell’uomo che, in tipico stile beckettiano, risponde agli stimoli esterni alla sua persona e ne trae un immenso senso di sconforto e talvolta inquietudine. Vestito solo di una camicia privata della sua parte posteriore, su cui si poggia una cravatta, viene gettato sul palco a rappresentare l’uomo chiamato alla vita, che deve agire e non per sua volontà, quanto per una sadica costrizione. Gli stimoli sono fischi che riempiono la scena, vuota, se non fosse per gli oggetti che uno alla volta scendono dall’alto. Chi sia l’autore di questi fischi, non è dato saperlo; un dio? La coscienza dell’uomo? A ogni richiamo corrisponde un’azione che spinge l’individuo a raggiungere i propri obiettivi, il più delle volte senza riuscirci. I cubi di diverse grandezze che solcano l’aria, servono per innalzarsi e prendere l’acqua contenuta in una caraffa che, in un crudele andirivieni dall’alto verso il basso, sfugge sempre alla presa dell’uomo. L’individuo trova conforto solo nel compiere i gesti che fanno parte della sua quotidianità, come tagliarsi le unghie con le forbici fornitegli dalla misteriosa entità. Gli sarà concesso anche il privilegio di porre fine alla sua vita, ma non sarà in grado di farlo, l’unico gesto che stremato riesce a fare è quello di guardarsi le mani, inerme, steso al suolo e a un passo dalla caraffa piena d’acqua.

AttoSenzaParole2

Atto senza parole 2, infine, vede sulla scena Raimondi e Longobardi continuamente punzecchiati dall’esterno. Stavolta non è il suono a richiamare l’attenzione, quanto la vista che qui è catturata da un’enorme freccia scarlatta che indica, uno alla volta, i due interpreti. Le azioni sono le stesse, ripetitive, scandite; eppure nella loro somiglianza i due sono differenti. Vestirsi prendendo a caso gli abiti da un mucchio, mangiare, lavarsi i denti: tutto risponde a dei bisogni primari ma eseguiti con accenti diversi. Un modo alternativo e quanto mai efficace di voler contrastare gli schemi stabiliti da una società che ci vorrebbe simili, vuoti, robotici e che invece deve fare i conti con la diversità di ognuno, sebbene l’involucro apparente sia lo stesso. La necessità di avere una corazza spiega i sacchi di cellofan con cui i due attori si coprono all’inizio e alla fine della messa in scena, quasi a voler sottolineare la non conformità delle persone dietro un velo di somiglianza e parità. Nel corso della narrazione le luci, curate da Gaetano Battista, si alternano con il buio e si affievoliscono o si potenziano in base all’andamento del racconto prima e dei gesti quasi mimici poi. Entrambi finiranno, nuovamente, con il comprendere che non c’è soluzione che possa avvicinarli, che saranno sempre diversi nel loro essere simili.

Portare Beckett in scena non è mai semplice, non è semplice adeguarsi alla geniale assurdità delle sue proposte restituendole con altrettanta forza. È evidente, in questo trittico, il tentativo di Raimondi e Longobardi di ricreare e far vivere allo spettatore quell’atmosfera straniante e paradossale e certamente lodevoli sono la prova attoriale – salvo qualche tono un po’ sopra le righe –  e le scelte registiche. Si fatica, tuttavia, a trovare organicità drammaturgica fra i tre lavori, un filo che, al di là dello straniamento, giustifichi questo assemblamento. Si resta perplessi, dunque, nel finale, come sospesi e persi nei meandri del mondo beckettiano.

 

PRIMO AMORE
di Samuel Beckett

con Sergio Longobardi
regia Costantino Raimondi
assistente alla regia Annalisa Arbolino
spazio scenico Mediaintegrati
creazione luci Gaetano Battista
costumi Tata Barbalato
organizzazione Antonio Nardelli
diritti di autore Agenzia Teatrale D’arborio
produzione Teen’s Park E Nuovo Teatro Sanità

ATTO SENZA PAROLE 1
di Samuel Beckett

interpretato e diretto da Costantino Raimondi
assistente alla regia Annalisa Arbolino
spazio scenico Mediaintegrati
creazione luci Gaetano Battista
costumi Tata Barbalato
organizzazione Antonio Nardelli
diritti di autore Agenzia Teatrale D’arborio
produzione Teen’s Park E Nuovo Teatro Sanità

ATTO SENZA PAROLE 2
di Samuel Beckett

con Costantino Raimondi e Sergio Longobardi
regia Costantino Raimondi
scenografia Mediaintegrati
creazione luci Gaetano Battista
costumi Tata Barbalato
organizzazione Antonio Nardelli
diritti di autore Agenzia Teatrale D’arborio
produzione Teen’s Park e Nuovo Teatro Sanità 

 

Napoli, Palazzo Reale-Cortile delle carrozze
18 giugno 2019