GIORGIO FRANCHI | Due settimane fa, quando l’Italia sembrava essersi spostata nottetempo dalla penisola scandinava al centro della foresta amazzonica, i redattori della Settimana Enigmistica hanno stappato lo champagne. Caldo vuol dire mare, e mare vuol dire incremento delle vendite per il passatempo più popolare del nostro Paese, risolto collettivamente da branchi di bagnanti radunati in simposi sotto all’ombrellone, tra un’insalata di riso e l’altra, uniti contro il terribile Bartezzaghi o Malaguti a settantacinque definizioni.
Era il 1913 quando Arthur Wynne brevettò il cruciverba: il gioco girò tutto il mondo, ma per trovare un popolo in grado di apprezzarlo dovette spingersi fino in Italia, la patria del suo bisnonno Giuseppe Airoldi, che nel 1890 aveva ideato e pubblicato sul Secolo illustrato della domenica un prototipo di schema 4X4 di sole caselle bianche. Nel 1932, più precisamente il 23 gennaio (23/1/32, non a caso una data palindroma), uscì il primo numero della Settimana, già con l’immancabile cruciverba in copertina, con il volto dell’attrice messicana Lupe Vélez. Il primo passo per il settimanale che, in termini di longevità e diffusione nella cultura di massa “dall’Alpe a Sicilia”, compete solo con Topolino (stesso anno di nascita e data non più palindroma, ma “a cernita1”: 31/12/32).
Tuttavia, l’abitudine di giocare con le parole ci è propria da molto prima del regalo datoci da Wynne. Dagli anagrammi di Leopardi (SILVIA, rimembri ancor il tempo…/ il limitare di gioventù SALIVI?), passando per gli indovinelli del Leonardo, fino alle iscrizioni di epoca romana del quadrato del Sator, generazioni di Italiani si sono passati la fiaccola della ludolinguistica. Ma come mai si è affermata proprio qui?
Proviamo a pensare ai più recenti tedofori: subito ci verrà in mente Umberto Eco, ma anche Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Paolo Conte. Quest’ultimo, il 26 aprile, ha raccontato la sua passione al pubblico del Piccolo Teatro Strehler di Milano, assieme al fondatore della rivista La Sibilla, Guido Iazzetta, in una serata della rassegna Milano per Gaber (anch’egli, in vita, appassionato di rebus e indovinelli). Conte non ha mai nascosto il suo amore per le parole crociate più famose d’Italia, che cita in Sotto le stelle del jazz (Nel tempo fatto di attimi/ e settimane enigmistiche…), ma sul palco cita la frase bisenso, gioco al quale lo stesso Iazzetta – inventore, tra l’altro, della già citata “cernita” – ha dato il nome, correggendo la vecchia dicitura “crittografia mnemonica”. Conoscete la barzelletta: «Cos’è un fattore di potenza? Un contadino della Basilicata»?
Ebbene, è una frase bisenso. Ogni parola ha due significati (‘fattore’ come ‘termine della moltiplicazione’ e ‘agricoltore’, ‘potenza’ come l’operazione matematica o come il capoluogo lucano), e forma con l’altra una frase, anch’essa con due significati. Tra queste, il pianista astigiano cita la sua descrizione del FALSARIO, pubblicata proprio sulla Sibilla: il falsario, infatti, «similare soldo fa», frase che non solo contiene tutte le sette note, ma pure in intervalli di quarta (SI do re MI fa sol LA si do RE etc.).
Il bisenso è considerato da una larga fetta di addetti ai lavori il nucleo fondamentale dell’enigmistica: somme di frasi a due termini bisensanti costituiscono gli enigmi pubblicati sulla Sibilla e altre riviste, lunghi anche trenta versi e più.
Ma torniamo alla domanda iniziale: perché l’italiano?
Certamente Il posizionamento della nostra penisola al centro del Mediterraneo, il suo fungere da ponte tra Africa ed Europa e tra Europa balcanica e occidentale, ha favorito l’insediamento, pacifico e non, di diverse nazioni e l’influenza delle loro lingue, donandoci una carrellata di etimologie diverse confluite in parole simili. Se ‘ratto’ deriva dal latino rapidum significherà ‘veloce’, mentre se deriva dall’alto tedesco ‘ratte’ sarà un cugino del topo. ‘Sale’, come condimento, viene dal latino salem, mentre se è plurale di ‘sala’ viene dal longobardo.
Tra queste, la predominanza della derivazione dal latino, lingua del popolo più influente nella nascita della cultura occidentale, ha garantito al nostro idioma un bacino estremamente ricco da cui attingere, ma tanto remoto nel tempo da far perdere l’associazione immediata di un termine con la sua etimologia. Si possono fare molti giochi di parole, ad esempio, tra ‘arma’ e ‘armadio’, proprio perché nessuno associa più il guardaroba al ripostiglio per le armi, l’armarium. D’altra parte, il livellamento su base fonetica di una lingua così complessa per giungere all’italiano porta inevitabilmente a delle sovrapposizioni: vedi ‘chiese’, come passato remoto di ‘chiedere’ (quaerere) o come edifici religiosi (ecclesiae).
Un processo analogo avviene, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, con i dialetti della penisola italica. Uno dei più spassosi errori di traduzione è il Monte Disgrazia, montagna delle Alpi Retiche occidentali, che deve il suo nome da racconto di Edgar Allan Poe alla traduzione fantasiosa del lombardo des’giascia (da una declinazione di ‘sghiacciare’).
La tardiva importazione dell’inglese, e la sua storpiatura maccheronica che ci fa da marchio di fabbrica, aggiunge alla nostra collezione di bisensi termini come ‘pale‘ (pallido), ‘cane’ (bastone), ‘mole‘ (talpa); citiamo «Ansimerà sola», firmato Thinker (Paola Cannavale), che in inglese diventa gonna pant alone (gonna pantalone).
Disordinata, confusa, inafferrabile, meticcia e dissacrante: la lingua italiana sembra nata per giocarci, in barba ai professoroni che Aldo Palazzeschi, ben prima di qualche ministro del nostro governo, sbeffeggiava in E lasciatemi divertire!. Ma, soprattutto, estremamente varia: ogni rebus, ogni crittografia prende diverse sfumature a seconda della sua origine, esattamente come vini e formaggi. La Settimana Enigmistica dovrebbe essere considerata un prodotto DOP del nostro Paese, figurando sugli scaffali di Eataly tra pistacchi di Bronte e mozzarelle di bufala, e le risate che accolgono Paolo Conte allo Strehler sono la prova che gli italiani, anche in questo, hanno un palato finissimo.
PS: Ci auguriamo che abbiate trovato interessanti queste righe. Se così non fosse, non ci offenderemo se lo definirete un articolo scontato, purché siate consapevoli che anche questa è una frase bisenso.
Note:
1. cernita: frase in cui, eliminando via via le coppie di lettere uguali, non rimane alcuna lettera “superstite” (es.: io non stimo me stesso)