MATTEO BRIGHENTI | La realtà del mondo è l’ironia di un’attesa: la perdita si fa riconquista solo se condivisa. «I nostri spettacoli hanno uno sguardo ironico – spiega Francesco Lagi, drammaturgo e regista – i personaggi, spesso in attesa, devono rimettere a posto i pezzi della propria vita: la loro salvezza passa dalla messa a fuoco dei sentimenti nelle relazioni, che è l’antidoto ai mali delle nostre giornate».
Il centro di Teatrodilina è infatti la parola, il suono, l’attore. Pur parlando di mancanze da ricomporre, rimane fondamentale l’incontro, la presenza. «Il teatro per noi è l’essere presenti – continua – il nostro modo di affrontare la scena è quello del guardarsi negli occhi, dell’ascolto, dell’abbraccio, del gesto reale. In questo senso, il nostro è un teatro di parola e di attore».
Uno strenuo percorso di compagnia che ricostruiamo insieme a Lagi toccando tutti i lavori prodotti da Fondazione Sipario Toscana onlus: da Brina (2019), l’ultimo in ordine di tempo, che debutta alla Città del Teatro di Cascina a dicembre, al primo, L’asino d’oro (2010), senza dimenticare Zigulì (2013, Premio Selezione Inbox), Il bambino dalle orecchie grandi (2017) e Quasi Natale (2018).
Fare teatro, quindi, è ancora contemporaneo?
Sì, decisamente. È contemporaneo perché è il gesto dell’esserci, è il più antico e il più proiettato nel futuro che possiamo fare. Noi crediamo che il teatro possa parlare in modo vivo e riguardare in modo diretto le persone. Per questo, cerchiamo di creare racconti che coinvolgano il pubblico: non facciamo teatro per noi stessi. Ecco, allinearsi con lo spettatore per noi è fondamentale. Ovvero, tenere la giusta distanza tra quello che succede in scena e quello che lui o lei in platea stanno capendo. La nostra domanda costante è: dov’è lo spettatore adesso?
Questo tema ricorda il celebre film del 2007 di Carlo Mazzacurati legato al fare giornalismo: la “giusta distanza” è un rapporto, un dialogo. La si deve poter rinegoziare se davvero si vuole raccontare le cose come stanno.
Interpretare cosa vuol dire la parola ‘giusta’ è il problema della messinscena. La risposta è soggettiva e, in qualche modo, denota la bravura di chi fa regia. Secondo noi lo spettatore deve rimanere vivo dentro la storia, senza annoiarsi, quindi senza essere troppo avanti, ma senza nemmeno rimanere imbrigliato in delle istanze incomprensibili, oscure o faticose. È una questione per noi molto appassionante.
A proposito di oscurità, il nuovo Brina tratta di un’enorme cospirazione. Ci ritroviamo in un mondo in cui la paura si è impossessata delle nostre vite e del nostro modo di vedere le cose?
Attraverso questo spettacolo cerchiamo di esplorare un sentimento molto presente oggi: la paranoia. Caliamo i personaggi dentro un sistema di segni e di sensazioni che li portano al confine tra quello che esiste e quello che non esiste, quello che sentono e quello che sono indotti a sentire. Ci piace partire da cose concrete: in questo caso, un frigorifero rotto.
La brina, difatti, sta nel frigorifero. Questo elettrodomestico diventa, forse, una specie di porta spazio-temporale, indicativa del tempo congelato nel quale viviamo?
La brina è anche quella cosa che ricopre le cose. Non so se è corretta la tua idea, però suona bene. Brina è ancora in fase di studio e di scambio, devo essere sincero, potrei dire cose sbagliate.
Di certo, al momento, c’è la squadra di lavoro: gli attori, Anna Bellato, Francesco Colella, Silvia D’Amico, Leonardo Maddalena, sono gli stessi di sempre.
Il discorso che ci piace portare avanti è proprio quello di compagnia. Tendo sempre a dire ‘noi’, a parlare di ‘noi’, perché quello che facciamo è condiviso. Quando ci ritroviamo nel progetto Teatrodilina lo riconosciamo come casa nostra. Nel momento in cui siamo a fare le prove, sappiamo che dobbiamo aprirci, collaborare, condividere e convincere gli altri perché quella data cosa abbia senso per tutti. Fare lo spettacolo è una forma di festa collettiva, non c’è qualcuno al servizio di un altro. Tutti sappiamo che stiamo portando avanti un discorso comune.
Il vostro ritrovarvi pare quasi uno specchio del ritrovarsi dei personaggi sul palcoscenico.
Assolutamente sì. Quello che siamo in scena viene dedotto da quello che siamo fuori scena, viene guidato da quello che siamo nella vita. Essere sempre i soliti è un valore prezioso, che noi portiamo avanti con ostinazione.
Un valore di comunità, di sentimento e di percorso, iniziato con il viaggio de L’asino d’oro nella parte oscura di noi stessi.
A differenza di Brina, che è un mio testo originale, L’asino d’oro è un adattamento da Apuleio. Cronologicamente è molto antico, ma abbiamo voglia di rimetterlo in piedi, perché è uno spettacolo che ci piace molto. Quello che a noi interessa mettere a fuoco di questa storia è la ricerca che fa il protagonista rispetto alla realtà e all’esistenza stessa di se stesso, della propria natura. È un percorso in soggettiva fra Kafka e Pinocchio, dove cerchiamo di analizzare il senso dell’identità. Ci interroghiamo su chi siamo e di cosa siamo fatti. Perché, insomma, il personaggio diventa una bestia e passa gran parte del tempo come una bestia.
La scena di Margherita Baldoni è ristretta e la visione è velata, ammorbidita da una polvere che sale via via che scorre la vicenda. Questa polvere è una sorta di “antenata” della brina odierna?
Lo spazio scenico è visto attraverso un tessuto che rende tutto un po’ nebbioso e l’attore si muove dentro una nuvola di polvere bianca, come se fosse una vicenda raccontata nella nebbia. Ci sembrava suggestiva come idea scenografica, proprio perché Apuleio parla di una coltre oltre la quale ci siamo noi, gli individui.
In Zigulì la coltre, per così dire, è la disabilità di un figlio che mette alla prova ogni giorno il suo rapporto con il padre?
Zigulì è tratto dal libro di Massimiliano Verga edito da Mondadori, un diario in cui l’autore racconta pezzi della sua vita insieme a suo figlio, un bambino che, in modo generico, si può definire disabile. Attraverso le cadute quotidiane, lo sconforto, la rabbia, la frustrazione, ma anche l’ironia, il nostro personaggio racconta se stesso e il senso di essere padre. Il loro è il rapporto selvaggio tra due forze arcaiche, che si scontrano ogni volta che devono prendere un tram, un treno, devono uscire di casa, mangiare, andare in bagno, pulirsi. Naturalmente Zigulì è una storia d’amore. Raccontiamo come l’amore possa passare attraverso il conflitto e la difficoltà.
Sia L’asino d’oro che Zigulì vivono dell’interpretazione di Francesco Colella.
Francesco, attraverso il testo, il gesto, i suoni realizzati dal nostro sound designer Giuseppe D’Amato, incarna gli ambienti e gli stati d’animo che attraversano le giornate di questi personaggi in momenti diversi della storia. La scenografia di Salvo Ingala per Zigulì è assolutamente scarna ed essenziale. Di solito non vogliamo restituire visivamente uno spazio, quanto suggerirlo a livello emotivo e verbale. Quindi, con le parole, i gesti, la spazializzazione delle azioni, i suoni, cerchiamo di restituire mondi che lo spettatore può abitare. Il percorso di Zigulì, inoltre, non è finito con lo spettacolo: si è evoluto nel rapporto reale con Massimiliano e suo figlio, che sono diventati nostri amici con il passare del tempo. Abbiamo trasformato quell’esperienza in un documentario, terminato da poco; vediamo quale vita avrà.
Dall’amore padre-figlio passiamo al rapporto di coppia con Il bambino dalle orecchie grandi, interpretato da Anna Bellato e Leonardo Maddalena. Qui la paura è di scambiare il caso per destino e quindi quello che non possiamo governare come qualcosa che dobbiamo necessariamente subire?
Questa mia scrittura originale parla di un uomo e di una donna. Si sono appena incontrati e la prima volta che li vediamo è dopo la prima notte che hanno passato insieme. Le relazioni nascono attraverso il caso e maturano dentro una forma di casualità che spesso scambiamo per destino. Lo spettacolo vede quindi alcuni momenti della loro vita quotidiana attraverso un anno, lo svilupparsi della loro relazione e del senso del loro stare insieme.
Gli incontri che stiamo raccontando sono il tentativo di essere o di riscoprire come poter essere artefici del proprio destino?
Certo, Il bambino dalle orecchie grandi parla anche di questo, di come i rapporti sentimentali, ma pure i rapporti in generale, ci chiamino quotidianamente a una forma di responsabilità verso noi stessi e, soprattutto, verso gli altri. Le cose intorno a noi cambiano nel momento in cui decidiamo di assumerci una tale responsabilità.
Il bambino del titolo rappresenta i desideri che vorrebbero realizzare insieme?
I protagonisti sono due che hanno le orecchie grandi: si sono conosciuti per via di questa loro caratteristica. A un certo punto, appare loro in sogno un bambino e ipotizzano possa essere il loro figlio.
Questa, come Zigulì e pure L’asino d’oro, è la storia di un riconoscimento nella diversità, attraverso la diversità, per poi superarla?
Ogni personaggio che mettiamo in scena è un individuo. Perciò, raccontiamo sempre diversità che s’incontrano nello stesso posto e nello stesso momento.
Finora ci siamo concentrati sul confronto con il presente. In Quasi Natale, un altro copione originale con in scena Bellato, Colella, D’Amico, Maddalena, c’è, invece, il tentativo di fare i conti con il passato. Perciò, con l’essere bambini, più che con i bambini?
Tre fratelli si ritrovano nella casa della loro infanzia nei giorni prima di Natale: la madre li ha chiamati per dire loro qualcosa. C’è anche una ragazza, è la fidanzata di uno di loro che destabilizzerà i rapporti fra tutti, metterà a posto delle cose e ne disordinerà delle altre. Passare insieme quei giorni, in una situazione così delicata, farà affiorare ricordi, emozioni, sentimenti che i fratelli avevano rimosso. In definitiva, Quasi Natale parla dei rapporti familiari, dell’infanzia, dei bambini che non siamo più. Anche questo è diventato un film: l’abbiamo finito di girare da poco.
Il passato che riaffiora sembra rimandare ancora alla polvere de L’asino d’oro.
Quando facciamo teatro partiamo da una concretezza, da una precisione di gesti, parole e di messinscena. Per raccontare, però, la sospensione; affermando la realtà tendiamo a negarla o a interpretarla. Quindi, ci piacciono molto i “fantasmi”. Ecco, il teatro, per noi, è principalmente un mezzo per evocare. Tutti i nostri spettacoli evocano qualcosa che non si vede, perché, in fondo, la scena si presta per non vedere un sacco di cose.
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