ILENA AMBROSIO | Una casa disabitata da poco, ancora pregna di vita vissuta, di oggetti che conservano le impronte di chi li ha maneggiati. Luci, ombre, suoni, voci… quelle di un uomo e una donna che agiscono frammenti di ricordi come fossero abitanti di una mente, loro stessi pezzi di una storia, di un tempo. Si chiama proprio così, Come va a pezzi il tempo, il lavoro di Alessandra Crocco e Alessandro Miele, alias Progetto Demoni, giunto a Salerno grazie alla rassegna Mutaverso di Erre Teatro. Uno spettacolo che, insieme a Demoni – Frammenti e L’ultimo valzer di Zelda, sarà parte del progetto La rivoluzione dei libri (5-12 luglio) realizzato dalla compagnia per il Napoli Teatro Festival: tre lavori che hanno in comune l’ispirazione letteraria e un particolare approccio al rapporto tra attore e spettatore.
Questi, tra gli altri, i temi emersi durante il nostro incontro con il duo.
La vostra collaborazione inizia nel 2012, avendo già alle spalle ciascuno un proprio percorso. Come è nato questo incontro e come le vostre personali esperienze l’hanno determinato?
AC: Ci siamo conosciuti nel 2001 durante un laboratorio di Marco Martinelli in una sezione del Festival di Benevento che si chiamava Provoc-Azione ed era diretta da Ruggero Cappuccio.
Eravamo molto giovani. Alessandro aveva 18 anni, io 21. Fu un’esperienza bellissima che ha avuto sicuramente degli effetti sulle nostre vite.
Poi ognuno ha seguito il proprio percorso artistico: Alessandro ha fondato Menoventi, io ho frequentato la scuola del Teatro Arsenale a Milano. Nel frattempo però ci siamo fidanzati e abbiamo sempre covato il desiderio di lavorare insieme. Siamo riusciti a farlo nel 2012 quando abbiamo deciso di prenderci un tempo per noi, per la ricerca, senza avere in mente un preciso obiettivo produttivo. La nostra guida è stato Dostoevskij e un libro in particolare, I Demoni. Ognuno ha messo nel lavoro le proprie inclinazioni e il proprio personale bagaglio artistico ma ci ha unito sicuramente la voglia di andare in profondità e di esplorare territori fino a quel momento per noi sconosciuti.
Il Progetto Demoni si muove in due direzioni: Frammenti, frame di spettacoli per pochi spettatori, in luoghi non teatrali, e Fine di un romanzo, su, cito, «quel che resta de I Demoni di Dostoevskij». Il leitmotiv sembra essere proprio la frammentarietà, il recupero di momenti astratti dal loro continuum. A quali esigenze espressive avete sentito di dare risposta?
AM: È venuto tutto in modo naturale. Ripensando a tutti i nostri spettacoli, è come se fossero sempre ambientati all’interno di una mente, in un luogo molto profondo di una mente dove restano solo alcuni momenti, i cuori, le essenze, le correnti sotterranee. Una cella frigorifera in cui vengono conservati alcuni pezzi.
Le nostre sono tutte storie finite, sono ricordi che sbiadiscono. Questa strada ci si è aperta improvvisando, cercando, scavando. Ci ha guidati una particolare qualità scenica, una presenza che ha qualcosa di animalesco.
Già in Frammenti e, poi, in Come va a pezzi il tempo la scelta scenica è, in realtà, quella di una non scena. Nel secondo caso un’abitazione abbandonata di recente. Questo elemento ha condizionato a monte la scrittura drammaturgica? E quale impatto ha, di volta in volta, un ambiente nuovo su di voi, sulla vostra sensibilità di autori e attori?
AC: Come va a pezzi il tempo ha alcune cose in comune con quel primo lavoro, come l’utilizzo di ambientazioni non tradizionali (che mi chiedo se possiamo ancora chiamare non tradizionali, visto il loro ampio utilizzo), non marcatamente teatrali, l’apertura a pochi spettatori per volta… ma è anche molto diverso.
I Frammenti da I Demoni erano tre incontri con tre figure dostoevskijane. Gli spettatori venivano portati dentro la storia, quasi dimenticando di essere solo spettatori.
In Come va a pezzi il tempo gli spettatori restano testimoni. I ricordi della coppia protagonista che prendono forma nella casa non chiedono loro nessuna immedesimazione anche se questa poi avviene comunque.
AM: La casa abbandonata di recente è stato il primo elemento drammaturgico che ha guidato il lavoro di creazione. Siamo partiti da una sensazione abbastanza chiara, quella che si prova quando si entra per la prima volta da soli in una casa di un familiare dopo la sua morte. Chiunque l’ha provata. Rientri in quella casa, tutto è al suo posto eppure è forte la sensazione che il tempo si sia fermato, che quegli oggetti siano diventati reliquie. E tu ti ritrovi a girare per la casa a caccia di ricordi, oppure sono i ricordi che ti danno la caccia, ti assalgono, sembrano venir fuori proprio dagli oggetti. E così rivivi momenti passati, significativi o banali, che ti restano impressi chissà perché, ma che comunque portano con sé il senso di una vita che è trascorsa.
La frammentarietà drammaturgica si traduce in una “messa in scena” decisamente cinematografica, penso alle scene brevi, alle voci in dissolvenza, per esempio. In che modo avete lavorato sulla rappresentazione e la recitazione?
AC: La recitazione tiene sicuramente conto della vicinanza con gli spettatori. Abbiamo dovuto lavorare molto sullo stare sul limite. Nelle prove e nelle prime repliche ci siamo accorti che non dovevamo calcare troppo sul quotidiano ma neanche andare in una direzione marcatamente teatrale. Dovevamo tenerci sul filo, trovare la giusta frequenza per creare un’atmosfera e stabilire un rapporto con gli spettatori.
Per quanto riguarda la rappresentazione, è vero, ci siamo ispirati al cinema. Vista l’ambientazione e la possibilità di far spostare gli spettatori, abbiamo potuto sfruttare i differenti ambienti, decidere delle inquadrature, giocare sui salti temporali come se stessimo costruendo un montaggio cinematografico.
Una componente fondamentale del vostro lavoro è proprio il pubblico. In Come va a pezzi il tempo cinque spettatori si ritrovano a seguire i personaggi come fossero cameraman. Un rapporto di estrema vicinanza ma anche di partecipazione, come se a loro spettasse il compito di ricomporre, ciascuno a proprio modo, i pezzi del puzzle. Quale posto occupa questo elemento nel vostro progetto?
AM: Hai ragione, gli spettatori nello spettacolo sono proprio come l’obbiettivo di una macchina da presa. Dietro c’è un lavoro a monte fatto da noi nel guidare il loro sguardo.
In fondo anche in teatro è così, la visione è un po’ guidata dall’occhio del regista. Ma Come va a pezzi il tempo è più immersivo per lo spettatore di uno spettacolo tradizionale. Curiamo tutti i dettagli anche quelli apparentemente casuali, come l’arredamento, cerchiamo case che vadano bene ma facciamo anche un grosso lavoro di allestimento.
Il riferimento al puzzle è calzante. Noi non lottiamo per tenere in vita una storia che è successa, non siamo dei narratori, nel senso più tradizionale del termine. A noi interessa mostrare le rovine di una storia compiuta, evocarne alcuni momenti, mostrare solo alcuni pezzi del mosaico. È quello che succede alla nostra mente: non ricordiamo ogni secondo della vita, non abbiamo un filo narrativo che lega i ricordi. Procediamo per cuori, per salti tra momenti banali e momenti importanti. La logica e la narrazione appartengono a un’altra regione del nostro cervello da cui cerchiamo di stare lontani quando lavoriamo, per non rischiare di banalizzare e di appiattire.
Non vogliamo raggiungere linearmente un obiettivo. Offriamo agli spettatori una matassa, non una parziale ricostruzione lineare.
Questo lavoro racconta proprio momenti di una vita vissuta; non semplicemente la storia di una coppia ma anche tutte le dinamiche esistenziali che un rapporto a due mette in moto. Come abitate, da attori ma anche da persone una dimensione così intima?
AC: C’è certamente una componente personale. Siamo autori e interpreti dei nostri lavori e partiamo sempre da un desiderio, qualcosa che a noi preme, qualcosa di cui vogliamo parlare. Inoltre lavoriamo con la scrittura di scena e con l’improvvisazione e quindi c’è molto di nostro nello spettacolo.
Ma cerchiamo anche sempre di prendere le distanze, di applicare un filtro.
Bisogna guardarsi dall’esterno, sentirsi ridicoli, divertirsi a vedersi come personaggi oltre che sentirsi persone.
COME VA A PEZZI IL TEMPO
di e con Alessandra Crocco e Alessandro Miele
produzione Progetto Demoni
Co – produzione Capotrave / Kilowatt, Infinito srl