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Foto Eugenio Spagnol

RENZO FRANCABANDERA | Non c’è niente di più sacro e che si avvicini all’essenziale del teatro, sostiene Maurizio Rippa interprete canoro attivo da anni sulla scena indipendente italiana con repertorio fra lirica e canzone tradizionale e popolare internazionale. La riflessione viene fuori a margine della conversazione che la rassegna biennale I Teatri del Sacro ha ospitato nell’ultima giornata del festival poco prima dell’ora di pranzo.
Il ritmo vitale (ogni festival ne ha uno) de I Teatri del Sacro si muove così: dal pomeriggio alla sera incontri, presentazioni di libri, video documentari e poi spettacoli nella meravigliosa cornice della città di Ascoli, un gioiello architettonico ed ambientale che chi non conosce dovrebbe visitare.
All’indomani mattina nello spazio L’Impronta, una chiesa sconsacrata ora riallestita come centro polifunzionale, le compagnie che hanno presentato i loro spettacoli la sera precedente incontrano il pubblico, secondo quello schema ormai rodato nei festival che si rivolgono ad una platea di discussione allargata non solo ad operatori e critici, ma anche al normalissimo frequentatore occasionale della poltrona teatrale.
Ne viene fuori una delicata rassegna che occupa nel panorama nazionale un ruolo sempre più specifico e di qualità, e a livello territoriale non solo gli spazi teatrali della città ma anche alcuni altri luoghi di straordinaria ed ascetica bellezza.

L’edizione di quest’anno riserva diverse interessanti sorprese, tutte iscritte in generale all’interno della cornice del teatro di parola ma con una diversa declinazione del tema del sacro, che in controluce cerca di avvicinare la tematica delle virtù del cristianesimo. Ma ancor più forte del tema di per se stesso, appare la riflessione su ciò che è rituale oggi.
Il rito, elemento fondante della civiltà umana fino dai suoi esordi, cardine della vita sociale ed anche dell’esperienza soggettiva, nella nostra società sta modificando i suoi connotati, stravolti dal cambiamento della struttura sociale. Cosa rimane allora di questa modificazione, verrebbe da dire quasi genetica. Ne da un assaggio proprio Maurizio Rippa di cui parlavamo prima, quando nel suo Piccoli funerali, felicemente accompagnato alla chitarra da Amedeo Monda, riesce a portare gli spettatori ad un vero e proprio rito di accompagnamento e di tangibile rivisitazione dell’impronta della memoria di coloro che non ci sono più.
La proposta, che in realtà fatichiamo a definire banalmente “spettacolare” perché si tratta di una riflessione poetica, canora e in qualche modo performativa, crea una grandissima commozione in modo veramente semplice ed esemplare. Qualcosa che rimane struggente e a suo modo indimenticabile, su quanto proprio l’assenza degli riti crei una solitudine dentro le persone poste di fronte alle prove più dure, alle cesure dell’esistente, a cui non siamo più preparati: la creazione è una chiara testimonianza di cosa significhi la perdita di un vero e proprio rito di accompagnamento nel nostro tempo, una idea semplice e pregevole, a cui dare possibilità di essere vissuta da quanta più gente possibile, anche solo per il semplice conforto della vera emozione collettiva, quella catarsi di cui tanto si parla ma che quasi mai arriva. Ho pianto a calde lacrime uscendo dalla chiesa.

Ci porta invece in uno spazio dove ancora questo rito di derivazione tradizionale è presente la nuova creazione di Saverio Tavano, U Figghiu, che racconta la vicenda di un giovane affetto da disturbi psichici ed ossessionato dal rapporto con la religione. Fin dalla prima scena, fin dall’ingresso in sala, il pubblico lo trova a recitare giaculatorie e a sfogliare una sorta di album di santini, muovendosi in modo ossessivo. Il portato sociale di questo stato soggettivo ci viene proposto attraverso lo sguardo dei genitori: la madre più indulgente ed amorevole, si sovrappone quasi all’icona di Maria Addolorata rispetto a questo povero Cristo di paese. Più giudicante e rancoroso il padre, che non riesce a darsi pace per aver generato un figlio così poco uomo, e piuttosto pronto simbolicamente a crocifiggerlo per la vergogna.

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foto Eugenio Spagnol

La creazione ancora molto a cuore aperto è da armonizzare nelle sue parti costitutive, sicuramente facendo leva su una serie di elementi sia visivi che di pensiero scenico comunque pregevoli. Sarà proprio il lavoro sull’armonia delle parti a decretare la riuscita di un’operazione che ha in sé un potenziale evocativo interessante anche proprio sulla rigidità della forma rituale, su quanto il rito a volte preveda delle regole incapaci di accogliere le differenze soggettive. Il rito è assoluto, finanche violento e cieco al modificarsi della società. Muore, come le religioni, come le strutture socio economiche che lo hanno generato. Ma spesso, a suo modo, uccide, con la stessa ferocia della società che lo perpetra.

Su riflessioni di matrice filosofica si fonda invece il Simeone e Samir diretto da Massimo Berti e interpretato dal regista stesso con Sergio Brenna. Si tratta di un allestimento che prende le mosse da una serie di scritti e dialoghi del pensatore e studioso Ignazio De Francesco, che ha scritto un libro di conversazioni su identità e differenza nell’incontro fra culture e religioni. Un cristiano e un musulmano si incontrano in un luogo remoto: uno è medico l’altro bandito. La creazione scenica è essenziale. Verrebbe da dire un tè nel deserto. Non ci sono orpelli se non loro due, due sacche di tela e la parola, capace anche di diventare in alcuni momenti bellissima trasposizione canora in siriaco di alcuni versi e di alcune parole dei dialoghi.

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foto Eugenio Spagnol

Sempre complesso portare in scena la filosofia, il dialogo, la dissertazione di pensiero. Berti, facendo sintesi del più ampio scritto, cerca di ricavarne una drammaturgia utile alla scena, ma l’operazione resta complessa. Affascinante e alta, ma non sempre leggibile e propriamente “teatrale” nonostante lo sforzo di costruire un antagonismo, un conflitto che poi va ad avvicinare le due parti in contesa. Resta il fuoco sul tema del dialogo e del confronto, così poco praticato oggi.
In questa ottica di rimando al contemporaneo, non c’è dubbio che il perdono e l’accudimento, virtù cui sono stati dedicati altri due lavori presentati nel fine settimana (Settanta volte sette – su cui torneremo a parte – e Il Vangelo secondo Antonio) sono davvero dimensioni che appaiono evaporare nella frenesia violenta della comunicazione quotidiana in cui non esiste nemmeno più il tempo dell’ascolto.

Sul tema della malattia e dell’accudimento si sofferma lo spettacolo di Dario de Luca di Scena verticale che racconta la vicenda di un prete solidale, uno di quelli in prima linea nelle battaglie ai margini della società. Tutta la forza e la prontezza persino astuta di questo personaggio inizierà a sgretolarsi sotto i colpi dell’Alzheimer.

Assistito da sua sorella, perpetua dal tratto quasi letterario (la brava Matilde Piana), il prete regredirà fino allo stadio primordiale della natura umana. La prova attorale dei due protagonisti è convincente, mentre più acerba quella del terzo interprete, il giovane chierico (Davide Fasano) che prenderà poi a fine spettacolo il posto del prete di periferia. Interessanti sia le soluzioni scenografiche che le luci, entrambe disegnate dallo stesso De Luca. Meno incisiva la drammaturgia, che indulge in qualche didascalia in momenti in cui potrebbe invece essere passata simbolicamente la staffetta allo spettatore per completare il prospetto emotivo con il proprio sentito. Bellissima la scultura arcaica del crocifisso, opera lignea di Sergio Gambino.

 

PICCOLI FUNERALI

di Maurizio Rippa
con Maurizio Rippa (voce), Amedeo Monda (chitarra)
produzione 369gradi

SIMEONE E SAMIR
dal libro omonimo di
Ignazio De Francesco
di Alessandro Berti
con Alessandro Berti, Sergio Brenna
organizzazione Gaia Raffiotta
produzione Casavuota/Unedi

U FIGGHIU

testo e regia Saverio Tavano
con Francesco Gallelli, Loredana Ponti, Saverio Tavano
produzione Nastro di Möbius
in collaborazione con: Teatro delle Arti-Lastra a Signa, Teatro la Buffa-Amantea

IL VANGELO SECONDO ANTONIO

scritto e diretto da Dario De Luca
con Matilde Piana, Dario De Luca e Davide Fasano
musiche originali Gianfranco De Franco
scena e disegno luci Dario De Luca
audio e luci Vincenzo Parisi
assistente alla messinscena Maria Irene Fulco
costumi e assistenza all’allestimento Rita Zangari
realizzazione scultura del Cristo Sergio Gambino
organizzazione Settimio Pisano e Rosy Chiaravalle
produzione Scena Verticale