SILVIA ALBANESE | Dal 21 al 30 maggio la diciannovesima edizione del festival torinese Interplay, diretto da Natalia Casorati, ha offerto al pubblico un ricchissimo programma: 23 compagnie provenienti da tutto il mondo hanno abitato non solo i teatri della città, ma anche gallerie d’arte, musei, università e centri commerciali. Ribadendo anche quest’anno la propria vocazione all’engagement degli spettatori, a Interplay non sono mancati i momenti di incontro e di riflessione. In particolare il 24 maggio al Polo del ‘900 si è tenuta una giornata dedicata al ruolo dei festival in Italia dal titolo Festival, antenne del contemporaneo, a cura di Fabio Acca e Natalia Casorati; l’incontro si è posto in continuità ideale con gli appuntamenti che si sono svolti nel 2017 e nel 2018 al Festival Contemporanea di Prato, dedicati a indagare la funzione culturale dei festival, stavolta però con un focus specifico sui progetti che pongono al centro la danza contemporanea e i linguaggi che ne agitano le possibili declinazioni. Sono intervenuti tredici direttori artistici provenienti da otto regioni italiane, oltre a un ospite internazionale dalla Corea del Sud: Jong Ho Lee direttore artistico del festival SIDance.
A introdurre la giornata è Fabio Acca che, riprendendo il filo con l’incontro del 2018, ribadisce la necessità di fare esercizio di pensiero riguardo ai festival, sottolineando l’importanza dell’azione curatoriale come motore di un principio trasformativo: il festival è un progetto culturale che si attualizza nella pratica di un fare che coinvolge il pubblico secondo una chiave antropologica partecipativa. Il festival è un’avanguardia culturale, un’alternativa possibile rispetto ai modelli dominanti, che assume spesso un rischio produttivo e di impresa al fine di farsi incubatore del nuovo e creatore di nuovi modelli; per un festival sono importanti le strategie di inclusione e le relazioni con le comunità di riferimento (a livello locale, nazionale e internazionale). La parola festival viene tuttavia usata spesso per indicare oggetti di discorso molto disparati, anche nell’orizzonte dell’intrattenimento o di eventi che perseguono finalità turistiche; si rende dunque necessario creare occasioni di riflessione, scambio e negoziazione del senso di questo termine: a cosa ci si riferisce quando si parla di festival, a un progetto culturale che persegue dei fini ben precisi, o piuttosto a un evento di intrattenimento con finalità turistiche o para-turistiche? A fare la differenza sono le ricadute in termini di creazione di comunità e l’offerta di contenuti di qualità, e a queste dovrebbe guardare il valutatore, nell’opinione di Acca, anziché affidarsi a logiche esclusivamente algoritmiche. La sfida per i festival è quella di farsi spazi di interpretazione del nuovo mantenendosi in equilibrio tra una necessaria organicità al sistema e una forte indipendenza curatoriale, il tutto in un contesto di grande fragilità economica e precarietà politica.
Il primo a prendere la parola è Lanfranco Cis: il festival Oriente Occidente, da lui diretto, compirà ben 40 anni nel 2020. Per Cis il festival è un atto estetico ma soprattutto politico, il cui ruolo da un certo punto di vista è analogo a quello degli zingari in Cent’anni di solitudine: creare una spaccatura nell’ordinario e introdurre a Macondo dei linguaggi incomprensibili. Cis sottolinea la complessità dell’attuale contesto socio politico, marcato da un forte individualismo: i festival possono rigenerare un rito collettivo, innescare nuovi vissuti di comunità e disarmare le solitudini oltre ad assumersi la responsabilità di offrire al pubblico occasioni di riflessione su tematiche di rilevanza sociale e politica.
Emanuele Masi dirige dal 2013 il festival Bolzano Danza Tanz Bozen, giunto quest’anno alla 35esima edizione; il suo intervento, oltre ad aprire una riflessione sui termini oggetto dell’incontro, racconta in breve la storia di questo festival la cui prima direttrice artistica è stata la torinese Loredana Furno. Racconta del graduale avvicinamento alla polis e della drammaturgia attuale del festival, da lui progettata secondo delle linee guida che accompagneranno l’intero triennio 2018-2020; tra queste ci sembra particolarmente innovativa e pertinente al discorso la decisione di aprire un dialogo con un guest curator (che cambia di anno in anno) per la programmazione della sezione outdoor, disegnata come una expanded choreography in cui la città diventa il palcoscenico e il pubblico il corpo danzante. Masi conclude invitando a riflettere sulle opportunità creative che le pressioni economiche, estetiche e politiche possono stimolare, e conclude citando (con libertà) il direttore del Fesival d’Avignon Olivier Py: «se mi chiedessero perché la danza è insostituibile, direi che lo è perché è il cammino più breve dall’estetica all’etica, e anche il cammino più breve dall’etica all’estetica». Poiché il contemporaneo è ciò che è presente, invita inoltre i festival a pensare al futuro ponendosi come antenne trasmettenti capaci di irradiare un segnale, un’idea politica, secondo una ricorsività rituale capace di rinnovare.
Maurizia Settembri usa la parola progetto per definire Fabbrica Europa, realtà nata con il sostegno di progettualità europee e giunta quest’anno alla sua 26esima edizione; dallo scorso anno Fabbrica Europa ha sede a Firenze a PARC, ma le iniziative che mette in campo continuano a coinvolgere l’intera città, compreso quest’anno il Teatro della Pergola di Firenze. Maurizia Settembri volge l’attenzione soprattutto agli artisti, e afferma che uno degli obiettivi di un festival è creare il miglior contesto possibile per loro, rimarcando l’importanza delle residenze artistiche. Conclude citando Dino Sommadossi e definendo il festival un atto rivoluzionario, capace di introdurre il nuovo nel sistema, qualora preservi le caratteristiche di autonomia e di indipendenza.
Massimo Carosi, direttore artistico del Festival Danza Urbana – nato a Bologna nel 1997 da un gruppo di universitari con l’obiettivo di portare la danza contemporanea in spazi urbani non convenzionali, intercettando anche la necessità artistica di gruppi che nascevano in quegli anni, come mk e Le Supplici – sottolinea come l’intervento della danza in spazi pubblici diventi un presidio di democrazia che garantisce la libera espressione e la creazione di relazioni. Gli eventi proposti sono quasi tutti a ingresso libero e gratuito, nonostante ciò non si allinei con le norme ministeriali: la danza di strada, infatti, non è a oggi riconosciuta a livello istituzionale, e se la gratuità diventa un disvalore per il valutatore ministeriale, la dimensione dell’accessibilità viene negata. In questo senso Danza Urbana continua ad assumersi un rischio culturale che si rende necessario per presidiare la libertà creativa degli artisti e dare priorità alla relazione piuttosto che alla rappresentazione.
Ancora 3 interventi si sono susseguiti nell’arco della mattina: Angela Fumarola, co-direttrice artistica di INEQUILIBRIO, festival di Castiglioncello che compie quest’anno 22 anni, pone l’accento sulla necessità per il curatore di lavorare in stretta sinergia con gli artisti, nel tempo e fin dal processo creativo in residenza artistica, rischiando assieme a loro, permettendosi di “essere sovversivi” insieme, consentendo all’artista di esplorare anche il paesaggio. Anche Francesca Manica, direttrice dei dancing days, sezione danza di Romeuropa Festival, ribadisce la necessità di mettere al centro l’artista ma anche il pubblico e la formazione del pubblico alla lettura del contemporaneo; rileva inoltre, con Masi, quanto le ristrettezze economiche possano creare un valore aggiunto per la propulsione che danno alla creazione di reti. Velia Papa, direttrice del TRIC MARCHE TEATRO e di INTEATRO festival di Polverigi e Ancona, definisce il festival come «uno spettacolo fatto di tanti spettacoli»; il festival attiva un tempo speciale, è generatore di nuove energie, è acceleratore di processi e non può prescindere dal proprio territorio e dalla propria comunità di riferimento. In sé il festival è un’esperienza effimera, che si nutre dei processi attivati e realizzati nel corso dell’anno: in primis delle esperienze di residenza che a Villa Nappi (così come al Castello Pasquini di Castiglioncello) avvengono anche in edifici storici rifunzionalizzati.
La condivisione di esperienze e punti di vista al termine della mattinata apre non poche questioni. Ci si interroga sulla stanzialità e sul nomadismo dei festival: chi non ha uno spazio per offrire residenze artistiche ne avverte la mancanza, altri hanno già attivato collaborazioni e reti (territoriali, nazionali e/o internazionali) in grado di consentire anche alla realtà più liquida di lavorare in stretta relazione con gli artisti. Qualcuno si interroga sulle reali opportunità di circuitazione delle creazioni prodotte dai festival, rilevando che in questo senso non è semplice dialogare con i circuiti territoriali, perché sicuramente i pubblici di riferimento dei festival e dei circuiti sono molto diversi tra loro. Altro tema è proprio quello della formazione del pubblico: si rileva come spesso i festival si facciano carico di supplire alle carenze del sistema, alla stessa mancanza di politiche culturali talvolta, e ci si chiede se ciò sia o meno opportuno.
Facciamo depositare anche noi questi stimoli, e prendiamoci una pausa, prima di scoprire i relatori e i contenuti della seconda parte della giornata.