SILVIA ALBANESE | «Sosteniamo i festival innovativi, liberi da pressioni politiche, estetiche, economiche». Le parole di Frie Leysen direttrice del Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles fino al 2006, hanno introdotto i temi della seconda parte del convegno Festival, antenne del contemporaneo, svoltosi nell’ambito del festival Interplay (qui la prima parte del nostro resoconto). In un sistema che tende sempre più a incoraggiare i grandi numeri, come si può sostenere l’innovazione? Come si può salvaguardare la funzione culturale di un festival nel difficile equilibrio con le spinte che alimentano un diffuso intrattenimento? Qual è il limite tra organicità al sistema e indipendenza curatoriale? Come interpretare il delicato rapporto tra progetto, territorio, pubblico e istituzioni, all’insegna di quanto storicamente compete ai festival dedicati prevalentemente alla sperimentazione e alla ricerca, ovvero l’investimento collettivo nel cosiddetto “rischio culturale”? I curatori della Giornata – Fabio Acca e Natalia Casorati – hanno invitato a discutere su questi temi alcuni operatori e direttori artistici, senza alcuna gerarchia interna, che in Italia da anni promuovono la danza contemporanea, i giovani coreografi e i nuovi linguaggi del corpo, al fine di offrire uno spaccato significativo del panorama nazionale, auspicando di poter accogliere in futuro ulteriori interlocutori.

Foto Andrea Macchia

Come si è già detto, questa giornata di riflessione si svolge in continuità con quanto avviato nel 2017 a Prato: su proposta di Edoardo Donatini nel settembre 2017 durante Contemporanea Festival di Prato sono stati invitati critici e studiosi a discutere sul crollo della funzione culturale dei festival; contestualmente a questa prima riunione sono nati a livello nazionale altri importanti momenti di confronto tra organizzatori e critici che hanno stimolato la composizione di un tavolo di coordinamento.
Nel 2018 – ancora nell’ambito di Contemporanea Festival – è stato avviato un percorso di studio condotto secondo una formula seminariale, che ha visto i direttori di alcuni festival rappresentativi del territorio nazionale confrontarsi in un dialogo; a un anno di distanza (ovvero il prossimo settembre) usciranno e verranno resi pubblici gli atti del seminario. Siccome le parole sono importanti si rileva in questo momento storico la necessità di rinegoziare il senso della parola festival, in modo che sia possibile stabilire chiaramente a cosa ci si riferisce con questo termine che rischia di inglobare indistintamente progetti culturali così come esperienze turistiche e para-turistiche di intrattenimento diffuso. Su questi aspetti della questione verte l’intervento di Edoardo Donatini, con cui si apre la seconda parte del convegno: i festival devono costantemente riaffermare la propria legittimità nonostante abbiano una funzione e una storia, fatta anche di trasformazioni. Per loro natura i festival trattano una materia in movimento: qui risiede la dimensione della fragilità che però è anche ciò che consente la generazione del nuovo. Nel rispetto della loro funzione i festival devono restare fragili, in caduta: è questo a garantire la possibilità di proporre contenuti in linea con lo spirito dei tempi, di creare innovazione e sviluppo culturale. Il sistema dovrebbe riconoscere ciò, anziché chiedere ai festival di fare intrattenimento, anziché valutare ciecamente sulla base di numeri che devono sempre andare nella direzione di una qualitativamente indistinta crescita. Contemporanea festival nasce dalla relazione tra il Teatro Metastasio e il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci: il ruolo del direttore artistico è stato quello di fare da ponte, di mediare tra queste due realtà territoriali favorendo l’emersione di qualcosa di nuovo: ne è un esempio il progetto Alveare, che ha visto le sale del Pecci abitate da artisti liberi di costruire in base alla propria necessità e urgenza, senza alcuna finalità produttiva, e ha visto spettatori attraversare queste sale assistendo a dei percorsi trasformativi in divenire.

Foto Andrea Macchia

E mentre Donatini auspica un prossimo approfondimento del dialogo sulla funzione dei festival che si focalizzi sul rapporto con gli artisti, a Interplay il dialogo prosegue con Selina Bassini, co-direttrice del festival AMMUTINAMENTI di Ravenna – nato nel 1999 dopo l’esperienza di Lavori in pelle, diretto da Monica Francia ad Alfonsine – fondato da coreografe che arrivano sul territorio come delle aliene, e lo trasformano: il festival è infatti per Bassini una pratica dei luoghi e dell’abitare, la cui portata trasformativa è evidente nella darsena di Ravenna, adesso uno dei luoghi di Ravenna città candidata capitale europea della cultura. Con Bassini anche Giulia Melandri, giovane curatrice che si interroga sulle opportunità di rigenerazione e rinnovamento di un festival con un così importante patrimonio storico: necessario è salvaguardare la pluralità dei linguaggi del contemporaneo, e affinare i progetti di accompagnamento dei giovani coreografi e di sviluppo del pubblico.
Segue l’intervento di Attilio Nicoli Cristiani che dal 1999 co-dirige con Alessandra De Santis il Danae Festival a Milano, un festival con una connotazione di genere, legato al femminile, e nato per volontà di artisti che non avendo accesso ai palcoscenici dei teatri hanno creato un nuovo contesto in cui fosse possibile portare al pubblico le proprie creazioni. Benché nato in teatro, Danae ha visto crescere notevolmente il proprio pubblico quando si è aperto a spazi altri. Adesso che ha vent’anni, il festival è una creatura che ha acquisito un’identità propria, plurale.
Daniele Del Pozzo è il vincitore per Gender Bender del Premio Ubu 2018 come miglior curatore (con Francesca Corona per Short Theatre): il festival bolognese nato al Cassero di Bologna ha un forte messaggio di inclusione sociale rispetto al mondo lgbti, in cui nasce. La centralità del corpo nella danza e nella rappresentazione di sé, questo è alla base del progetto, nato nel 2002. Rischiare per Del Pozzo presuppone imparare ad avere fiducia, e coltivare opportunità. Il festival è una forma di attivismo, è un agire pubblico e quindi politico, che vuole generare un cambiamento nella cultura attraverso piccole aperture, slittamenti dall’immaginario consueto.

Foto Andrea Macchia

Segue Antonella Cirigliano, direttrice di CROSS Festival a Verbania, nato dall’esperienza del Festival Villaggio d’Artista e dal successo del progetto CROSS Award (di Cirigliano e Tommaso Sacchi). CROSS Festival rivolge particolare attenzione alla ricerca continua – supportata mediante l’offerta di residenze artistiche – privilegiando gli artisti che lavorano attraverso la sperimentazione linguistica e assumendosi una responsabilità verso il contesto sociale in cui il loro progetto nasce.
Giuseppe Muscarello è un altro artista, un coreografo che ha creato nel 2017 il Festival Conformazioni a Palermo: un festival giovane, la cui connaturata fragilità è messa in evidenza da Muscarello, così come le favorevoli circostanze dell’attuale politica locale, che gli consentono di presentare al pubblico proposte internazionali dal carattere innovativo.

Le conclusioni della giornata, affidate a Paolo Ruffini, pongono l’accento sulle arti e sul loro intrinseco disordine, sul loro avventurarsi in un altrove; sulla necessità che l’arte colga aspetti salienti del nostro tempo. Sulla liquidità dell’arte e sull’importanza del ruolo dei festival in quanto luoghi di resistenza culturale, in grado di salvaguardare il farsi – e il darsi nella fruizione – di un’esperienza estetica che si esprime attraverso un linguaggio non ancora codificato, definito. E a proposito di definizioni, o forse di descrizioni possibili, Ruffini invita a riflettere sulla distanza che si è creata tra critici e artisti, tra chi scrive e chi crea, sulla mancanza di un vocabolario condiviso. Ma soprattutto, Ruffini ci lascia con due interrogativi che pesano: cosa vuol dire nella danza decolonizzare la cultura? E quando si parla di indipendenza, di preciso quale indipendenza si sta rivendicando? Da chi? Da cosa?

I curatori hanno la responsabilità etica di farsi ricettori di quanto avviene nel contemporaneo e successivamente mediatori tra gli abitanti dei propri territori e quanto hanno intercettato. La loro azione ha necessariamente un impatto politico, poiché comporta la comunicazione e talvolta anche l’introduzione di valori che sono estetici ed etici insieme. Questo decisamente non è intrattenere: talvolta significa anche disturbare, presentando sguardi, visioni e linguaggi che possono mettere profondamente in discussione schemi di pensiero accettati e condivisi. E finché non si rischia, non si sa quale sarà il reale effetto delle scelte curatoriali sul pubblico. La qualità del lavoro di un festival, se svolto in maniera coerente con la propria funzione culturale, non si può misurare in base ai grandi numeri. Come ci ricorda Natalia Casorati, le avanguardie nell’arte contemporanea hanno sempre abitato delle nicchie, e la prima presentazione a Torino di uno spettacolo di Pina Bausch si potrebbe definire un disastro in termini di pubblico! Forse quello che si chiede al sistema – e al cosiddetto Valutatore o Finanziatore – è di assumersi a sua volta un rischio culturale, dando fiducia a percorsi qualitativamente consolidati, per garantire quell’indipendenza curatoriale che altro non è se non la libertà. Libertà di scegliere, libertà di rischiare. Libertà di agire a sua volta fiducia nei confronti degli artisti.