ELENA ZETA GRIMALDI | “Passare una vita sul palcoscenico” può essere una bella metafora ma in alcuni casi è una frase da interpretare alla lettera: Maddalena Crippa viene scelta a soli diciassette anni da Giorgio Strehler per il ruolo di Lucietta ne Il Campiello di Goldoni, e da lì sarà un susseguirsi di grandi nomi (Ronconi, Calenda, Marcucci, Castri, Stein, solo per citare qualche regista) e grandi personaggi, sempre all’insegna di una profonda e accurata ricerca sulla parola e sul suono.
In quasi cinquant’anni di carriera, la Crippa ha fatto parlare di sé in Italia e all’estero, non solo come artista ma come lavoratrice del teatro, “paladina” del rigore e della serietà di questo mestiere. Abbiamo l’occasione (si ringrazia Gaspare Urso, ufficio stampa della Fondazione INDA) d’intervistarla a Siracusa, durante le rappresentazioni de Le Troiane per la regia di Muriel Mayette-Holtz.
È al suo terzo ruolo al Teatro Greco di Siracusa, dopo essere stata Medea per Peter Stein e Clitemnestra nell’Elettra diretta da Gabriele Lavia. Tre figure di donne molto forti, c’è una particolarità in questa Ecuba che la stacca dagli altri due personaggi?
Ecuba – l’Ecuba de Le Troiane − è totalmente diversa, è la donna che ha sulle sue spalle il massimo dei dolori, non c’è paragone con Medea e con Clitemnestra: le hanno ammazzato tutti i figli, hanno ammazzato Priamo, la città è distrutta. Questo è quello che lei vive e sopporta e, nonostante tutto, mantiene la speranza. È una figura unica, direi. Per questo i greci sono straordinari, perché sono riusciti a dare parole per esprimere qualcosa di inesprimibile. Euripide ha voluto dare la parola alle donne e fare una critica ai greci, ai maschi, alla guerra, senza appello e senza scampo. Lo trovo molto forte. Il pubblico si commuove, ed è la cosa più difficile, per questo sono molto soddisfatta del risultato. I greci conoscevano molto bene l’importanza del pianto, l’importanza del pianto condiviso, la possibilità di sciogliere il dolore esprimendolo a parole e condividendolo con gli altri. Così c’è una possibilità di reggere il peso di questo dolore, no?
Come fil rouge di quest’anno, che annoda insieme Le Troiane, l’Elena di Euripide e la commedia di Aristofane Lisistrata, è stato scelto “Donne e guerra”. Un accostamento che potrebbe sembrare strano, dato che da sempre la guerra è appannaggio del sesso maschile.
La guerra è appannaggio del sesso maschile però, guarda caso, quelle che ne fanno di più le spese sono le donne: da che mondo è mondo, sono le donne che rimangono da sole, senza uomini, senza figli, senza fratelli, senza mariti, e devono portare avanti la vita. È un bellissimo titolo, un bellissimo tema, che pone l’accento su chi veramente viene distrutto dalla guerra, e sono sempre le donne. Nella seconda guerra mondiale, a Berlino, erano le donne che tiravano via le macerie, a mani nude. C’è persino un monumento a queste donne. Il titolo “Donne e guerra” non poteva essere più giusto, più scelto, finalmente mettendo l’accento non sui guerrieri, ma su quelli che pagano le conseguenze nefaste. Ieri come oggi, è assurdo continuare a farle, queste guerre.
Quindi le donne, lungi dall’essere il sesso debole, possono portare una svolta, un punto di vista diverso dal dominante, per queste tematiche e problemi, attraverso la cultura, la politica, l’attivismo?
Sarebbe il caso di unirsi, sì. Forse ispirandosi a Lisistrata, per esempio. Come boutade… ma unire tutte le donne perché no? E tentare di promuovere qualcos’altro che questa lotta per il potere, questo accaparramento delle risorse, questo rubare continuamente soldi alla comunità.
C’è un discorso di Lisistrata che è meraviglioso, il discorso sulla lana – lo dirà poi Elisabetta Pozzi, benissimo. Trovo bellissimo il tema scelto quest’anno, esplorato e sviluppato in tre direzioni completamente diverse ma tutt’e tre così importanti.
Lei stessa si è definita “paladina del teatro di parola”, ha attraversato la parola in tutte le forme, in tutte le lingue. Mi sembra che questa Ecuba sia un personaggio molto aderente a questa missione perché, addirittura, convince Menelao ad ascoltare Elena per poi dibattere le sue argomentazioni. Il teatro funziona ancora come strumento di dialogo con la comunità e nella comunità?
Il teatro, per fortuna, è sganciato dalle tecnologie assurde che ormai hanno riempito la nostra vita. Noi non siamo fatti solo di carne, abbiamo anche uno spirito e un’anima che viene invasa dalle passioni e dalle pulsioni: il teatro non morirà mai e avrà sempre ragione di essere perché è l’unico luogo rimasto dove si può sviluppare un pensiero e un’emozione insieme agli altri, qualcosa di unico e irrepetibile. Quando accade, perché ovviamente molto spesso non accade assolutamente e allora il teatro fallisce. Ma quando accade è qualcosa di irripetibile, insostituibile, e necessario.
Quindi non abbandonerà la sua missione?
Io sono paladina del teatro di parola perché oggi è quello più minacciato. La maniera adesso più imperante è quella di “famolo strano”, “innoviamo”… ma cosa c’è da innovare? Nel senso: devi servire, io sono al servizio di Euripide, devo comunicare lui. Certo, la parola è il mezzo più difficile, più complesso, più articolato, che richiede un’arte che bisogna imparare. Senza le parole, in qualche modo, può essere più semplice, la parola contiene una grande complessità, che va guidata e che richiede un’arte: per la tragedia serve conoscere l’arte della retorica, per Cechov un’altra cosa. È una strada affascinantissima, ma sempre “al servizio di”. Non davanti. Prendere un grande e utilizzarlo a proprio uso e consumo, questo non lo reputo assolutamente giusto, e sono contro questa maniera di fare teatro, oggi frequente.
Ormai, non sono tante le occasioni in Italia in cui uno spettacolo ha la possibilità di andare in scena per lungo tempo. Le rappresentazioni classiche di Siracusa sono una di queste (avete fatto venti repliche, per due mesi di lavoro senza contare le prove). È davvero così importante avere tanto tempo a disposizione?
È fondamentale. E bellissimo, e spero che l’INDA continui, come ha fatto fino ad ora, a conservare questa peculiarità del teatro greco, perché è unica al mondo. È un sito archeologico dedicato al teatro, è un valore grandissimo e il teatro ha bisogno di questo, ha bisogno delle lunghe teniture. Un mese di prove non è nemmeno tantissimo, è una cosa normale, invece sono tante le repliche. Anche il pubblico è tanto. Lo sottolineo siccome ci dicono sempre che contiamo come il due di picche perché siamo una élite che ha poco pubblico. In questo caso, nel caso di Siracusa, delle tragedie, bisogna chiudere la bocca a queste persone, perché ci sono numeri come a un concerto, come in uno stadio, se fai il calcolo. Abbiamo avuto davvero un successo di pubblico molto grande: cinquemila persone a sera non sono una bazzecola!
In scena insieme a voi ci sono le allieve e gli allievi dell’ADDA. Parlando di giovani attrici, lei ha debuttato giovanissima con un regista come Strehler, che non era un maestro poco esigente. Ha qualche consiglio o qualcosa, al contrario, da sconsigliare ai giovani che aspirano a una vita nel teatro?
La situazione lavorativa è disperante, perché le produzioni sono sempre meno, i soldi sono sempre meno, i tagli sono sempre di più, e c’è una grande domanda dei giovani che vogliono fare teatro; ma poi la realtà è che non c’è abbastanza lavoro per tutti, è veramente problematico di questi tempi. Però io credo che ognuno sia figlio del suo tempo e deve, innanzitutto, provarsi. Questo è fondamentale: provare il proprio talento. Lo capisci mano a mano che vai avanti nell’esperienza, e se hai delle conferme in questo senso vai avanti, sennò cambi strada. È una cosa fondamentale, i greci dicevano “Conosci te stesso”, e conoscere se stessi vuol dire conoscere i propri limiti. Io posso anche, nella mia testa, pensare di essere Vittorio Gassman, ma nella realtà o riesco a diventarlo (o anche a superarlo), oppure devo contenere le mie ambizioni, uno deve capire qual è il suo limite. La voglia va sempre provata, sperimentata, e attraverso l’esperienza capire se è la tua strada o se invece stai soltanto inseguendo qualcosa di irrealizzabile.
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