LAURA NOVELLI | Che spirino venti di rivolta lo si capisce in modo incontrovertibile non appena il pubblico entra nella sala del Teatro Argot e prende posto sulle sedie che circondano lo spazio della rappresentazione. Al centro, cinque banchi di scuola, una cattedra, sporcizia a terra e null’altro. Siamo nell’aula di un istituto di istruzione superiore di una qualsiasi periferia italiana. Un’aula vuota, che poco a poco si popola di studenti dall’aria trasandata e assente. Adolescenti di oggi. Cuffiette nelle orecchie e smartphone in mano, incedono con passi ora lenti ora furiosi e sembra che qualcosa di misterioso li costringa a trascinare i loro corpi giovani in un luogo sì familiare ma deprivato di decoro e di senso.

lotta di classe

Sin dalle prime battute, i nove sbandati di questa classe così imbarbarita si insultano, gridano, litigano, battono sonoramente la mani sui banchi. Sono un gruppo. Una comunità ribelle e disagiata che aspetta l’arrivo di un professore. Di un adulto di riferimento. Di un Maestro. Di un Padre. Tuttavia in questa Lotta di classe che Angelo Longoni ha scritto ispirandosi liberamente alla celebre pièce Nemico di classe dell’inglese Nigel Williams (1978, edita in Italia da Einaudi), non arriverà nessuno a liberarli dalle loro fragilità, dalle loro paure intrise di umori contemporanei.
Come nel più desolante  scenario beckettiano, essi aspetteranno e aspetteranno e aspetteranno invano, trasformando il tempo dell’attesa (o meglio, il bisogno dell’attesa) in uno scannatoio dell’anima. Motivo per cui il loro ritrovarsi insieme lì – lì dove dovrebbero imparare a formarsi come cittadini e come persone libere – assume ben presto i contorni caciaroni e astiosi di un match  pugilistico nel corso del quale denunce e conflitti si tengono costantemente in bilico tra drammi personali e storture sociali.

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Lo spettacolo è frutto di un laboratorio svoltosi per quattro mesi presso la scuola di recitazione ACTION Pro di Roma con allievi-attori provenienti da diversi parti della Penisola. Tuttavia sarebbe riduttivo definirlo un saggio di fine corso. Si tratta, anzi, di un lavoro estremamente interessante che fa leva sul  ritmo serrato di una regia snella ma incisiva (la cura lo stesso Longoni) e su una sapienza teatrale davvero apprezzabile che, pur nella coralità dell’insieme, sa valorizzare i giovani talenti in campo regalando a ciascuno di loro un carattere ben preciso, uno spessore umano profondo, una storia personale.
C’è lo sbruffone di turno superficiale e pavido, il bullo arrabbiato, la ragazza ex-tossica e magrissima, la sinistrorsa impegnata politicamente, la sognatrice con le treccine e grinta da vendere, la timida video-dipendente, la partenopea sanguigna e fatalista, il ragazzo di colore sorridente, il timido cauto e taciturno. Fatta eccezione per qualche eccesso di enfasi, tra l’altro sintomo di quell’energia acerba ma positiva che spesso caratterizza lo stile degli attori molto giovani, il gruppo di interpreti risulta davvero affiatato e maturo. Tanto che mi sembra doveroso citare l’intero cast, composto da Adalberto Raffaelli, Marica Auletta, Filippo Dell’Arte, Marianna Delle Nogare, Giuditta Sole, Grazia Maria La Ferla, Beatrice Lombardo, Valerio Torraca, Prince Manujibeya.

Nell’attesa del domani che li accomuna, nella vacuità di ogni certezza che coinvolge qui giovani e adulti,  i nove ragazzi a un certo punto decidono di improvvisarsi professori e di tenere le lezioni su argomenti a scelta, dal sesso al giardinaggio, dalla politica odierna alla cucina. L’ottica dunque si rovescia: i ruoli non esistono più in questo millennio tanto confuso, contraddittorio e strano. E le lezioni degli studenti finiscono giocoforza col parlarci di loro (e di noi) più di quanto potrebbe fare una splendida spiegazione di Manzoni o del sistema solare.
Dalle pieghe di un linguaggio modernissimo, a tratti volgare e duro, emergono sofferenze e disagi serissimi; emergono famiglie incapaci di ‘cullare’ le loro giovani perle; emergono sprazzi di poesia metropolitana (come il passaggio del geranio che resiste strenuamente nel giardino/balcone di un padre troppo fragile), aggressività e conformismi degni della cultura social.

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Emerge soprattutto l’impossibilità, oggi, di una vera e propria lotta di classe nel senso marxista del termine. «C’era una volta – spiega Longoni nelle sue note – la lotta di classe. Poi la società dei consumi ha annullato il conflitto sociale malgrado l’aumento delle disuguaglianze. Poi è arrivata la crisi. Giovani e adulti fatti fuori da tutto, nessun futuro. La politica non aiuta. La sinistra ha perso contatto con i ceti sofferenti. La destra ha perso tutte le partite sulla riduzione delle tasse. Tutti cercano un nemico a cui dare la colpa e nuovi soggetti politici si sono fatti testimoni del sentimento dominante: la paura. E la paura non si può più combattere con la lotta di classe […]. Se Nemico di Classe era,  all’origine, uno spettacolo eversivo perché nato proprio negli anni dell’eversione e della protesta, questo di oggi, ironicamente chiamato Lotta di Classe, sottolinea l’assenza di un nemico contro cui protestare».

Forse però il nemico contro cui protestare è proprio il sistema che ha generato tanta paura diffusa, il vuoto creato dal prof. che non arriva, l’appiattimento del pensiero che ci minaccia quotidianamente. Non è un caso che la pièce di Longoni ricordi per alcuni versi il bel film di Laurent Content Entre le Murs (La classe), Palma d’oro a Cannes nel 2008,  così come quella pellicola cult che è Breakfast club di John Huges (1985).

Certamente, oltre alla qualità della drammaturgia e alla fluidità dell’incastro recitativo corale, in Lotta di classe colpisce l’attualità di certi bisogni, di certi sogni prematuramente infranti. I nove alunni di questa classe disastrata sembrano funamboli appesi al loro domani e incapaci di muoversi sul loro filo. Però stanno in un’aula, in una scuola. Condividono, cioè, la prima cellula di vita sociale che gli individui si trovano ad affrontare fuori dalla famiglia. Tanto più che proprio la scuola è un tema ultimamente proposto con un certa frequenza sui nostri palcoscenici. Penso, ad esempio, al monologo Prof! di Jean Pierre Dopagne interpretato da Massimo Rigo per il Teatro Libero di Palermo o a La classe. Un docupuppets per marionette di Fabiana Iacozzilli visto all’ultima edizione del RomaEuropa Festival.
Nella scuola, insomma, si annida una parte di ciò che siamo. Alla scuola affidiamo la comprensione del mondo che stiamo costruendo. Per questo, il fatto che qui, differentemente da quanto succede nel testo di Williams (di cui ricordo l’allestimento di Elio De Capitani dell’83 e quello di Massimo Chiesa del 2009), non arriverà mai alcun adulto a tenere lezione, dovrebbe metterci tutti in allarme.
Il vero rischio oggi, sembrerebbe voler dire Longoni, è che la rabbia giovanile sia non solo transgenerazionale ma fine a se stessa; si traduca in nichilismo e menefreghismo diffusi.

Per fortuna però i ragazzi – anche quelli confusi di oggi – posseggono un’intelligenza emotiva che li salva, che li preserva dai rischi del vuoto, dal prof. assente. Sanno leggere oltre, hanno le antenne per la verità della vita. E allora, che battano pure i pugni sui banchi, mentre le luci calano e mentre smettono finalmente di aspettare.

 

LOTTA DI CLASSE

scritto e diretto da Angelo Longoni
liberamente ispirato a Nemico di Classe di Nigel Williams
con Adalberto Raffaelli, Marica Auletta, Filippo Dell’Arte, Marianna Delle Nogare, Giuditta Sole, Grazia Maria La Ferla, Beatrice Lombardo, Valerio Torraca, Prince Manujibeya
produzione Action Pro, Mob Studios, Wake Up Produzioni, in sinergia con la Regione Lazio

Teatro Argot, Roma
25-30 giugno 2019

Prossime date:
Volterra, Festival internazionale del Teatro Romano – 4 luglio 2019

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