LAURA BEVIONE | Il progetto Cross, frutto della creatività e della dedizione di LIS Lab Performing Arts, si articola in tre realtà, non a sé stanti, bensì intrecciate e in costante e fertile dialogo l’una con l’altra. Al centro vi è sicuramente Cross Festival, conclusosi domenica 30 giugno, nel corso del quale hanno avuto spazio tanto i lavori selezionati da Cross Residence 2019 – e di cui abbiamo parlato nella nostra precedente cronaca teatrale da Verbania – quanto quelli selezionati per Cross Award 2018.
Indetto da LIS Lab in collaborazione con Fondazione Piemonte dal Vivo e Ricola – gli sponsor privati, allorché curiosi e lungimiranti, possono rivelarsi assai preziosi – il bando internazionale Cross Award (quella del 2018 era la quarta edizione) si rivolge ad artisti e compagnie attivi nel campo della performance e della musica. In particolare, si desidera privilegiare quelle produzioni che sappiano «comprendere diverse pratiche espressive», dalla danza alla sonorizzazione dal vivo, dalla videoarte al teatro, dal canto al site-specific design.
Di selezionare e premiare i progetti che maggiormente sappiano soddisfare le finalità del Cross Award sono incaricate due giurie distinte: l’una composta da “esperti” – critici, artisti, curatori, designer -, l’altra, quella “territoriale””, formata da appassionati abitanti a Verbania e zone limitrofe, che hanno seguito un percorso di formazione e avvicinamento ai linguaggi della performance.
Gli artisti selezionati nell’edizione 2018 di Cross Award sono stati Shamel Pitts con lo spettacolo Black Velvet; il collettivo AjaRiot con il suo D.A.K.I.N.I.; e Giuseppe Isgrò di Phoebe Zeitgeist con i musicisti di The Verge of Ruin, autori dello spettacolo-concerto Aspra.
Abbiamo avuto l’opportunità di scambiare qualche riflessione con ciascuno dei tre.
Lo statunitense – è nato a Brooklyn – Shamel Pitts è danzatore e coreografo, ma anche artista visuale, attore e insegnante. Gli chiediamo, dunque, qual è la sua identità prevalente e lui ci dice: «La combinazione di tutte queste cose. Essenzialmente sono un artista. Lavoro ed esprimo la mia arte ricorrendo a media diversi ma principalmente mi definisco un danzatore».
Hai danzato a lungo con la Batsheva Company, in Israele: come è stata questa esperienza?
Ho vissuto a Tel Aviv e ho danzato nella Batsheva per sette anni, dal 2009 al 2016. Ho amato davvero molto sia vivere a Tel Aviv, una città piena di vita e artisticamente assai stimolante, sia danzare con la Batsheva. Era il mio sogno.
Grazie all’esperienza con la Batsheva sei diventato insegnante di Gaga.
Sì, il Gaga è un linguaggio del movimento creato da Ohad Naharin, che è stato direttore artistico e coreografo della Batsheva Dance Company. Era il mio direttore quando vivevo a Tel Aviv e ho lavorato a stretto contatto con lui per molto tempo. Alla Batsheva praticavamo il Gaga con lui ogni giorno. L’allenamento Gaga è legato all’ascolto del proprio corpo: lo devi ascoltare prima di dirgli cosa fare. Ascoltare i limiti così come i punti di forza e giocare con le diverse fibre del proprio corpo: la capacità di essere delicati ed esplosivi allo stesso tempo. La capacità di ridere di se stessi, non prendendosi troppo sul serio ma lavorando seriamente.
Grazie al Gaga ho raggiunto una maggiore consapevolezza delle capacità del mio corpo e ora so quali sono i miei limiti e so cosa posso avere per superarli ogni giorno. Ho appreso molto riguardo la mia capacità di immaginazione, che tento di riversare nei miei lavori artistici.
Il Gaga riguarda molte attività che si svolgono dentro di noi. Insegno molto spesso questa disciplina, in tutto il mondo. In questo mese di giugno ho insegnato a Firenze e durante questa estate a Berlino.
Parliamo di Black Velvet, lo spettacolo selezionato da Cross Award 2018.
Black Velvet è il secondo lavoro della mia trilogia intitolata Black Series ed è frutto della mia collaborazione con la performer Mirelle Martins e il light designer Lucca del Carlo, entrambi brasiliani. Abbiamo creato lo spettacolo nel 2016 a San Paolo, in Brasile. Io mi trovavo lì per insegnare Gaga per due mesi e, nello stesso periodo, creammo insieme Black Velvet. C’era un forte legame fra me e Mirelle, lavoravamo insieme sia durante le lezioni di Gaga sia nella realizzazione dello spettacolo.
Black Velvet indaga proprio il modo in cui due estranei possano diventare compagni: io e Mirelle ci siamo incontrati e siamo diventati amici proprio grazie alla creazione del lavoro. In realtà ci eravamo già incontrati a New York, a Brooklyn, nel 2013: insegnavo Gaga in un programma intensivo e Mirelle era fra i miei allievi. Lei aveva vent’anni e io ero l’insegnante dunque non potevamo diventare amici allora. Oggi, invece, impariamo molto l’uno dall’altra e proprio la nostra condivisione di esperienze, pensieri ed emozioni ha costituito la base di Black Velvet.
Per quanto riguarda, invece, Lucca del Carlo, il suo contributo è stato importantissimo: sia in Black Velvet, sia in Black Hole, il terzo lavoro della trilogia. L’unica sorgente di luce che utilizziamo nello spettacolo è un proiettore che proietta nello spazio soltanto luci bianche e nere: sembra facile ma in realtà è un disegno luci molto complesso che testimonia delle notevoli qualità di Lucca. Egli realizza degli esperimenti cinematici e per mezzo di quest’unico proiettore realizza anche il videomapping.
Da cosa deriva il titolo dello spettacolo, Black Velvet [velluto nero n.d.r.]?
Per me è come se fosse un’unica parola, blackvelvet. Indica la consistenza di un materiale, molto morbido e capace di assorbire molta luce. Un materiale in grado anche di riflettere il nero. Mi piaceva questa idea di una consistenza morbida e poi c’era qualcosa a proposito delle sue qualità riflettenti che volevo condividere con un pubblico in una sala dove gli spettatori potessero certo vedere me e Mirelle performare in modo assai creativo ma comprendere pure che quello a cui stavano assistendo riguardava anche loro.
Quella di Verbania, al Cross festival, è la prima rappresentazione in Italia di Black Velvet, ma l’abbiamo già allestito a New York, Singapore, Stuttgart, Berlino, Stoccolma, Vienna, San Paolo. E per noi è davvero interessante condividere questa performance con culture tanto diverse e persone così differenti. Abbiamo notato, però, che gli spettatori reagiscono tutti in modo molto simile, in un modo quasi universale. Per loro lo spettacolo è un’esperienza emozionale. Qualcosa riguardo le nostre relazione e il mondo che creiamo, anche ricorrendo al videomapping, cattura gli spettatori, ha un impatto forte su di essi. Molti ci dicono di non aver mai assistito a niente di simile prima.
Credo che il lavoro susciti nel pubblico sensazioni e sentimenti e per me è importante che la gente senta qualcosa. Ci sono molte lacrime. La gente viene in teatro e ne esce diversa da come è entrata e ciò accade perché è riuscita a condividere il potere dell’arte, in particolare l’arte dello spettacolo dal vivo.
Ci puoi parlare degli altri due spettacoli della Black Series?
Il primo è stato Black Box, era un assolo che ho creato per me stesso e che prevedeva che pronunciassi molte parole. L’ho realizzato mentre danzavo nella Batsheva, in Israele, in collaborazione con un altro artista delle luci, Tom Love. Ho creato Black Box nel 2015 e la prima ebbe luogo nel mio appartamento di Tel Aviv: avevo una piccola stanza che non utilizzavo e che dipinsi completamente di nero così da trasformarla nella Black Box. La prima si svolse il giorno del mio trentesimo compleanno, per trenta miei cari amici e durava trenta minuti. Il lavoro finale della trilogia, invece, s’intitola Black Hole ed è una prova che coinvolge me, Mirelle e un performer sudafricano.
Giuseppe Isgrò è regista e fra i fondatori di Phoebe Zeitgeist, selezionata da Cross Award 2018 per lo spettacolo Aspra, proposto al festival in prima nazionale.
La tua compagnia teatrale Phoebe Zeitgeist è nata a Milano nel 2008: chi siete e quali sono gli obiettivi a cui mira la vostra ricerca? Si sono modificati nel corso di questi anni?
Pochi sanno che Phoebe è una creatura difforme, nata in realtà molto prima del 2008, anno della cosiddetta “professionalizzazione”, ovvero il cappio al collo del costituirsi associazione.
Nel 1999 eravamo una sorta di band experimental punk dove io e l’attrice, mia compagna di vita, Francesca Frigoli, declamavamo versi iconoclasti e contorti circondandoci di diversi musicisti più o meno anomali. Da allora la strada è stata lunga e impervia, attraversata da molti, a più riprese. Con alcuni abbiamo fortemente condiviso il progetto creativo e il pensiero del gruppo, qualcuno giace seppellito sul percorso, qualcun altro lo si rincontra ciclicamente.
Francesca Marianna Consonni è la terza anima autoriale fissa di Phoebe Zeitgeist dal 2010. La spinta creativa è sempre stata quella di costruire oggetti performativi che, a partire dal codice teatrale, lo pervertissero e impastassero con altri linguaggi che praticavamo anche prima di finire nel gorgo del teatro (musica, arte visiva, performance…).
Negli anni abbiamo iniziato a coltivare, sempre più assiduamente, una “didattica”, empirica e laboratoriale. Questa è stata anche una forma di lavoro sul territorio che ci ha portato a lavorare in accademie, Sert, istituti diurni di igiene mentale, musei, e a creare dei nostri laboratori permanenti, nella volontà di costruire relazioni e connessioni umane altre, differenti da quelle che si creano nella sola produzione e circuitazione di spettacoli.
Com’è nato il progetto Aspra? Un aggettivo che rimanda a una caratteristica comunemente giudicata negativa…
Aspra è nato da una residenza a Standards nella quale il duo elettroacustico The Verge of Ruin (aka Shari DeLorian e Stefano De Ponti) mi ha invitato a coprire un ruolo di produttore artistico che contaminasse il loro suono di elementi teatrali. Con Stefano avevamo già collaborato in maniera molto proficua nel nostro spettacolo Malagrazia, in cui lui aveva costruito l’architettura del suono manovrato in scena dagli attori.
In quei giorni passavano da quella fucina creativa e anomala diversi musicisti ospitati dai Verge, io ho invitato Francesca Frigoli, Daniele Fedeli e Chiara Verzola (gli attori che negli ultimi anni hanno più assiduamente incarnato la nostra estetica) chiedendo loro di portare testi di autori che avessero espresso concetti limite, posizioni scomode, pericolose o politicamente scorrette. Gli autori che ho scelto sono tra quelli che più fortemente hanno nutrito l’approccio di Phoebe Zeitgeist nella ricerca sulla parola icastica e trasfigurata: Fassbinder, Copi, Pasolini, Bataille, Mishima.
Ho chiesto agli attori di sperimentare l’uso di diversi tipi di microfono e ai musicisti di sperimentare diverse forme di modificazione, distorsione, ripetizione delle voci.
La Parola si è rivelata immediatamente aspra e lì ho visualizzato la possibilità che queste prime sperimentazioni potessero trasformarsi in opera; in questo strano concerto scenico o cabaret degradato che è diventato Aspra.
Ci siamo candidati a Cross Award e abbiamo ottenuto un premio di residenza e produzione, così ci siamo messi a costruire il lavoro attraverso una serie di immersioni di prova e ricerca cominciate nelle due settimane dello scorso ottobre al teatro Il Maggiore di Verbania.
Esistono diversi frutti aspri che amiamo e ai quali non potremmo rinunciare. Penso al limone.
Esistono per ognuno di noi, incontri con persone e concetti definibili aspri che ci hanno nutrito e accresciuto molto più di certa accondiscendenza o banalità.
Siete state selezionati per il CROSS Award e CROSS residence 2018: concretamente cosa ha significato per voi l’essersi aggiudicati questo riconoscimento?
La possibilità di avviare con un giusto sostegno iniziale, un progetto totalmente sui generis che esce sia dagli schemi teatrali, sia da quelli musicali, per andare a ricercare un approccio ibrido totalmente imprevedibile.
La capacità di dialogo dei curatori di Cross con questa nostra visione.
Un collettivo tutto al femminile, nato nel 2014: è AjaRiot – Performing Arts Collective, che unisce artiste, performer, danzatrici, video maker, studiose e producer che condividono interessi comuni. Al Cross festival hanno portato in scena il loro D.A.K.I.N.I.
AjaRiot è una sorta di collettivo: chi siete e quali sono gli obiettivi a cui mira la vostra ricerca?
Siamo un gruppo di artist*, performer, attivist*, videomaker, danzatrici, studios* e organizzatrici. Siamo mist* in provenienza, età, esperienze e pratiche. La ricerca, la transdisciplinarietà e il tema dell’autodeterminazione sono i nostri cardini comuni. Tramite essi, esploriamo la relazione tra corpo e immagini visive, le sue intersezioni, le sue potenzialità attive. È un processo poetico aperto: in continuo divenire. Che accoglie le disparità e non unifica. Che ama le differenze.
La nostra ricerca si nutre di pratiche corporee, somatiche, plastiche, visive, documentarie e politiche. In questo modo, proponiamo di investire un campo intuitivo oltre il linguaggio, un campo visivo e fisico che preceda la determinazione di una forma e che sappia rimettere in questione la frontalità della scena tradizionale, interrogando, insieme al pubblico, la realtà.
Il cast attuale di D.A.K.I.N.I. vede alla regia e visual art Isadora Pei, in scena la percussionista Federica Guarragi, la danzatrice Ester Fogliano, la performer Alessandra Sala. All’organizzazione Sara Giorla, alla drammaturgia Emanuele Policante e alle composizioni musicali Carlo Valsesia.
Com’è nato il progetto D.A.K.I.N.I.?
Guardandoci attorno. La tecnologia è parte integrante del nostro quotidiano e l’AI è una delle grandi sfide del futuro, una rivoluzione già in atto. Donna Haraway nel Manifesto Cyborg dice che «le donne devono confrontarsi con la questione del loro coinvolgimento con la tecnologia, e affrontarne la complessità»; ci siamo messe a studiare e a interrogarci su come l’IA possa servire alla vita e alla teoria femminista e su come le donne se ne possano appropriare.
La nostra ricerca è transdisciplinare e ci siamo avvalse della competenza di espert* e consulenti scientifiche sui temi in questione, tra i quali l’ing. Giulia Baccarin di MIPU, Predictive Analytics Hub e la prof.ssa Francesca A. Lisi dell’Università di Bari e membro di AIxIA, Agenzia Italiana per l’Intelligenza Artificiale. Il Nordisk TeaterLaboratorium – Odin Teatret ci ha offerto una co-produzione e tre mesi di residenza nei loro spazi a Holstebro. Abbiamo organizzato incontri con esperte docenti, interventi artistici, video interviste negli istituti scolastici e laboratori nelle università.
In seguito siamo state selezionate da Cross Residence/Cross Award 2018 e abbiamo ricevuto il sostegno di Compagnia di San Paolo all’interno del Bando ORA! Produzioni di Cultura Contemporanea.
Il progetto è un cantiere aperto, in continuo divenire; stiamo già lavorando a D.A.K.I.N.I. SUIT(E), una performance interattiva che verrà presentata il 13 Luglio a Gorizia nel Festival Urbano Mul-mediale In\Visible Cities.
Foto di Aman Kumar
Il vostro spettacolo mescola vari linguaggi (recitazione, video, danza) e varie discipline (filosofia, sociologia, scienza): come avete lavorato per rendere omogenea tale eterogeneità?
Sì, D.A.K.I.N.I. è una performance multidisciplinare e transdisciplinare che indaga e mette in dialogo i temi dell’Intelligenza Artificiale e delle nuove tecnologie con le teorie femministe contemporanee. Le teorie e gli scritti di riferimento e il macrotema delle nuove tecnologie hanno richiesto un atteggiamento olistico e non premeditato.
Nella costruzione di un progetto artistico proviamo sempre a far incontrare temi e linguaggi molto distanti fra loro, convinte che la loro relazione e il dialogo portino a nuove soluzioni impreviste e sincere.
In D.A.K.I.N.I. si fa esplicito riferimento alle teorie femministe contemporanee: secondo voi cosa significa oggi essere “femministe”?
Educare, sensibilizzare e lottare per i diritti di tutt*. Tutto è politico: il corpo, la vita, l’arte. Promuoviamo un femminismo vitalista, postumano e intersezionale che pone l’accento sul potere trasformativo della sessualità e sulla forza generativa delle donne.
Riteniamo inoltre fondamentale appropriarci delle tecnologie per creare reti di diffusione, stringere alleanze e nuove connessioni che accolgano le differenze, promuovano la resistenza al nazionalismo, alla xenofobia e al razzismo.
Foto di Aman Kumar
Siete state selezionate per il CROSS Award e CROSS residence 2018: concretamente cosa ha significato per voi l’essersi aggiudicate questo riconoscimento?
É stato un importante riconoscimento essere state selezionate da un’istituzione come LIS LAB che da anni si occupa di valorizzare i linguaggi contemporanei nelle arti performative.
Il sostegno datoci da CROSS Residence è stato determinante per lo sviluppo della performance. Ci ha permesso di ampliare il nostro budget di produzione, di provare in un luogo splendido, Casa Ceretti, nel cuore di Verbania e abbiamo avuto la possibilità di parlare del nostro progetto con tutor autorevoli quali Margherita Palli, Italo Rota, Guido Tattoni, Massimo Torrigiani e tanti altri che ci hanno supportato nelle fasi creative.
Il calore e la competenza della direttrice Antonella Cirigliano, la presenza del curatore Tommaso Sacchi e la disponibilità di tutto lo staff ha reso costruttiva e autentica la nostra residenza artistica CROSS 2018.
www.crossproject.it; www.shamelpitts.com; www.pzteatro.org; www.ajariotcollective.com