LAURA BEVIONE | Quello di Prometeo, il titano che fa dono del fuoco agli umani e che per questo atto di hybris viene atrocemente punito da Zeus, è mito fondante dell’umanità, oggetto di riletture e riflessioni filosofiche da più di due millenni.
Prometeo è anche il protagonista di una trilogia composta da Eschilo, di cui purtroppo non rimane nella sua interezza che Prometeo incatenato, mentre delle altre – Prometeo portatore del fuoco e, soprattutto, un Prometeo liberato che vede il protagonista scendere a patti con Zeus per riottenere la propria libertà – non ci sono pervenuti che frammenti.
Un personaggio-mito che Fulvio Pepe ha scelto di mettere in scena offrendo una lettura che unisce carne e pensiero, filosofia e sensibilità; realizzando uno spettacolo che ha, fra gli altri, il merito di sondare la sopravvissuta universalità della tragedia classica, riscontrando come, a controbilanciare l’impossibilità della catarsi, sia oggi evidente l’azione di rovello esercitata dal testo sul pensiero degli spettatori, concentrati e costruttivamente annichiliti da quanto avviene sul palcoscenico.
E lo spazio teatrale di questa nuova messa in scena di Prometeo incatenato è anch’esso una versione contemporanea del tradizionale teatro greco: l’Arena Shakespeare, luogo all’aperto allestito da qualche anno a Parma sul retro del Teatro Due che qui realizza una singolare stagione estiva. Nel caldo tropicale di mercoledì scorso, pubblico e interpreti hanno così condiviso un’esperienza non usuale di piacere e sofferenza, meditazione e reazione istintuale.
La chiave di lettura individuata da Fulvio Pepe è stata, infatti, la rappresentazione non artificiosa né soltanto suggerita ovvero evocata, della sofferenza, quella provata da Prometeo, incatenato da Zeus a una rupe nella remota Scizia. Ecco allora che la scena scura ha al proprio centro una parete rocciosa, anch’essa nera, sulla quale si muovono Oceano e l’Oceanina – Ilaria Falini, una sorta di coro, presenza costante nel corso di tutta la tragedia, di cui è testimone e chiosatrice – e poi Hermes; e alla quale, tramite un trapezio legato a un parziale scheletro nodoso di albero, è agganciato Prometeo, con le gambe che soltanto a tratti trovano appoggio su una sporgenza.
Una prova di fatica e sofferenza, appunto, che ha condotto il regista a individuare tre diversi interpreti per il suo protagonista, a ciascuno dei quali è affidata una parte, in verità flessibile e determinata dalla resistenza dell’attore, del totale dei versi spettanti a Prometeo.
I tre – in ordine di apparizione Ivan Zerbinati, Federico Brugnone e Andrea Di Casa – petto nudo e una mantello rosso avvolto attorno alla vita, uniscono alla qualità squisitamente interpretativa la necessità di saper calibrare la propria forza fisica così da affrontare la sofferenza insita nella prova loro richiesta.
Non si tratta, però, di una sfida di resistenza da esercizio di sopravvivenza né, tanto meno, di dimostrazione di forza machista, quanto dell’oggettivazione di quel dolore – fisico ma soprattutto spirituale – che il Fato – Zeus, il Dio dei cristiani, la straordinaria complessità dell’esistenza umana – ha decretato quale compagno inseparabile dei mortali.
Prometeo, che ha regalato all’uomo sia il fuoco – ossia la technè – sia la cieca speranza, è ben consapevole che tali doni non siano certo mezzi per lenire quel dolore che è intrinseco al destino umano, sa che la sofferenza è ineludibile nel percorso di crescita e di progressiva emancipazione dal divino da parte dei mortali.
Dolore atroce e prolungato è quello provato – e tanto più terribile sarà quello esperito nei tempi futuri – da Io, che compare prima della metà della tragedia e ne occupa un’ampia sezione.
La giovane – interpretata da Deniz Özdoğan – striscia ai piedi della parete rocciosa lamentandosi terribilmente e condividendo con Prometeo e l’Oceanina la propria sventurata vicenda, vittima tanto dell’ingordigia sessuale di Zeus quanto della gelosia di Era. Prometeo – che possiede il dono della profezia – rincuora Io, annunciandole che sarà capostipite di una genia che saprà vincere il potere degli dèi, ma è pure costretto a rivelarle come le sofferenze per lei non siano ancora terminate, anzi…
Il dolore quale compagno della vita, ostacolo che indebolisce e disorienta, eppure mezzo privilegiato per l’umanità affinché essa possa riconoscere i propri limiti e scegliere di conviverci ovvero di tentare di superarli, in un cammino di evoluzione e affrancamento da credenze e superstizioni.
Il Prometeo di Fulvio Pepe, nondimeno, non è unicamente icona della sofferenza quale viatico alla conoscenza e alla maturazione dell’umanità che da bambina deve conquistare l’età adulta, bensì disperato eppur combattivo antagonista della giustizia divina, indifferente alle ragioni dei mortali che il Titano prova a difendere.
Il grido finale del protagonista, che si interroga se la sua terribile punizione sia frutto di giustizia, non è tanto quello di Antigone, che oppone le leggi del singolo – dell’uomo – alle leggi della collettività – lo stato incarnato da Creonte, quanto quello dell’umanità stanca e afflitta, desiderosa di sottrarsi a un insensibile Fato.
È il grido di Io, condannata senza avere colpe a un’esistenza di costante e periglioso peregrinare, senza requie né gioie; è il grido di quella parte di abitanti della Terra condannati a vivere fra guerre e povertà… Ed è proprio questa sofferenza senza motivo, questa ribellione a una giustizia che non si comprende che annichilisce gli spettatori raccolti nell’Arena Shakespeare.
Non c’è catarsi, non si esce dal teatro “purificati”, bensì inquieti e anche un po’ tremanti: lo spettacolo di Fulvio Pepe riesce così a tradurre in chiave contemporanea la funzione originaria del teatro greco: occasione privilegiata affinché la comunità mediti su di sé e riacquisti consapevolezza del proprio posto del mondo, inevitabilmente precario e dunque di cui prendersi costantemente cura.
PROMETEO INCATENATO
di Eschilo
regia Fulvio Pepe
costumi Emanuela Dall’Aglio
luci Luca Bronzo
interpreti Federico Brugnone, Andrea Di Casa, Ilaria Falini, Deniz Özdoğan, Ivan Zerbinati
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
www.teatrodue.org
Arena Shakespeare, Parma, 26 giugno 2019