ANTONIO CRETELLA | Mia Martini nell’89 cantava Donna, una canzone scritta da Vincenzo Gragnaniello in cui, senza cedimento a eufemismi poetici da canzonetta, si descrivono le fasi di uno stupro. Qualche anno prima la sorella Loredana si era presentata sul palco di Sanremo con un pancione posticcio sotto un abito di pelle nera, destando il solito scandalo perbenista e fornendo nel contempo un’immagine della femminilità e della maternità fuori dal canone iconografico mariano devozionale da Italiano di Toto Cotugno. Erano gli anni in cui da poco era stato eliminato il delitto d’onore dal codice penale italiano e vi era stata la riforma del diritto di famiglia, ma per converso si sacralizzava l’utilizzo del corpo femminile come arredo televisivo, un carnaio di maggiorate circondate da uomini anzianotti e poco avvenenti con espressioni buffonesche di eccitazione in un grottesco crescendo di voyeurismo e svilimento, mantenendo inalterata una cultura misogina che nemmeno i cambiamenti legislativi sembravano riuscire a eradicare.
Quanto è cambiato tutto ciò in trent’anni? Poco o nulla se andiamo a vedere le reazioni e i commenti di rispettabilissimi italiani medi di fronte a figure femminili forti e assertive: auguri di stupro nelle forme più violente, commenti sull’avvenenza fisica e sull’abbigliamento, scherno e dileggio della diversità. Da Laura Boldrini a Carola Rackete, cui il popolino di inflessibili giudici sovranisti commina come pena la violenza di gruppo da parte di extracomunitari, coniugando misoginia, razzismo e invidia del pene; passando per la bruttezza di Greta Thunberg e l’eccessiva mascolinità delle atlete del calcio femminile, l’attaccamento maniacale a una ridicola identità machista avvelena il discorso politico quanto la vita quotidiana in una sequela di piccole e grandi vessazioni passate sotto silenzio, ma non per questo meno gravi.
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