LAURA NOVELLI | «Il teatro è stato ciò che mi ha permesso di conoscermi, ciò a cui ho permesso di parlare al posto mio». Luca Ronconi è scomparso il 21 febbraio del 2015. Il suo teatro, inutile ribadirlo, rappresenta non solo una delle vette registiche e creative più alte della scena contemporanea ma, tanto più oggi, un’eredità culturale preziosa che si fa culla di memoria senza tempo. Memoria stratificata nello spettatore, in chi ha avuto la fortuna di vedere i suoi lavori, ma anche auspicabile riappropriazione di quelle energie vitali, di quella lingua scenica geniale, di quella sublime capacità di analisi. La memoria intercetta dunque il reale e si apre alla possibilità/necessità di trasmettere, soprattutto ai giovani, l’esperienza globale di una sensibilità artistica che nella sua carriera ha firmato oltre cento allestimenti, raccogliendo spesso sfide molto complesse.

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La memoria, ancora, costituisce il vettore dell’eredità stessa di Ronconi, del suo insegnamento, di quella linea ‘pedagogica’ (ma probabilmente il termine gli suonerebbe stonato) intrapresa allo Stabile di Torino, proseguita al Piccolo e diventata esigenza primaria al Centro Teatrale Santacristina, fondato in Umbria insieme con Roberta Carlotto, che ora lo dirige: «Uno spazio di libertà – ricorda – lo chiamava Ronconi: un luogo dove progettare, studiare e anche produrre, senza seguire le regole dei teatri, dove è possibile lavorare con modalità e tempi che altrove sarebbe impossibile mettere in pratica. Un luogo dove, senza titoli accademici né riconoscimenti ufficiali, abbiamo fatto laboratori, corsi di approfondimento e spettacoli, alternando le attività di una scuola di specializzazione per attori con la realizzazione di produzioni che mettevano a confronto alcuni interpreti già affermati con altri appena diplomati nelle scuole di teatro».

Questo laboratorio/casa/archivio avvolto nel silenzio della campagna tra Gubbio e Perugia non ha mai smesso di essere rifugio vitale di progettualità, e in questi giorni si appresta a inaugurare l’edizione 2019 de La scuola d’estate, contenitore di alta formazione professionale per attori (ricordiamo a tal riguardo il bel docu-film di Jacopo Quadri girato durante il laboratorio estivo del 2013) che dal 15 luglio al 14 agosto sarà coordinato da Massimo Popolizio e Carmelo Rifici e che prevede al suo interno due giornate di incontri a cura di Giovanni Agosti e Oliviero Ponte di Pino (22 e 23 luglio) accomunate dall’emblematico titolo Il filo del presente: il teatro tra memoria e realtà. Passato e presente strettamente connessi. Imprescindibili.

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Il senso profondo delle due tavole rotonde è chiaramente spiegato nelle note dei curatori. «Le parole chiave attorno alle quali ruoteranno le riflessioni sono due: memoria, a cominciare proprio dall’archivio di Ronconi tramite il quale è stato possibile arrivare alla pubblicazione di Luca Ronconi Prove di autobiografia a cura di Giovanni Agosti, (Feltrinelli, 2019). La riflessione sulla memoria ci porta a discutere sul valore e l’importanza degli archivi dello spettacolo dal vivo come strumento per riappropriarsi delle proprie radici e utilizzarle per la costruzione di un nuovo futuro, ma anche sulla riproducibilità degli spettacoli. La seconda parola chiave è realtà, ovvero le diverse articolazioni che sta assumendo oggi il rapporto tra la scena e il reale: una relazione che Ronconi ha esplorato con intuizioni geniali e anticipatrici. Le giornate di studio ruotano intorno a una questione per noi fondamentale: come rendere la memoria un elemento vivo per capire e interpretare il nostro presente? In parallelo, le giornate offriranno uno sguardo sulla trasformazione del teatro contemporaneo italiano ed europeo, un teatro di autori e registi che testimoniano la crisi e i cambiamenti del mondo e della società di oggi”. Proprio su questo secondo aspetto si concentreranno i percorsi laboratoriali e creativi di Popolizio e Rifici, al quale abbiamo chiesto di raccontare a PAC La scuola d’estate 2019.

In che modo si articolerà l’attività estiva del Centro Santacristina per ciò che concerne il lavoro pedagogico e il suo personale ruolo direttivo?

Massimo Popolizio seguirà la scuola, ossia i giovani attori dell’Accademia Silvio D’Amico che affronteranno un percorso tra teatro, letteratura e scienza partendo dai racconti de Il sistema periodico di Primo Levi. Dunque sarà lui l’anima dell’aspetto pedagogico del Centro. Per quanto mi riguarda, abbiamo deciso che io portassi a Santacristina la fase delle prove di due spettacoli che saranno programmati nella prossima stagione di LuganoInScena (realtà che lo stesso Rifici dirige, ndr). Nello specifico si tratta di un lavoro sul Macbeth Macbeth, le cose nascoste, di cui firmo la regia e di cui condivido la drammaturgia con Angela Demattè, e di una rilettura de Lo Zoo di vetro di Tennessee Williams diretta da Leonardo Lidi, un regista mio ex allievo che l’anno scorso ha vinto la Biennale College dedicata ai registi under 30, un artista con sguardo molto interessante. In questo caso, per esempio, mi ha proposto l’opera di Williams, da lui stesso riadattata, e ha voluto che fosse Tindaro Granata, cioè un attore/autore, a interpretare il ruolo di Tom, vero motore della vicenda. Sono convinto che farà un ottimo lavoro.

Cosa può anticiparci invece riguardo al suo Macbeth, le cose nascoste?

Io lavorerò essenzialmente con un gruppo di attori, tra gli altri Alessandro Bandini, Angelo Di Genio, lo stesso Granata, che hanno frequentato al Scuola del Piccolo di Milano e sarà innanzitutto un percorso molto intenso sugli attori stessi, in quanto il progetto prevede la supervisione di un’equipe scientifica di psicologi, in primis lo psicanalista junghiano Giuseppe Lombardi, che guiderà gli interpreti a un’indagine introspettiva piuttosto complessa. Partiranno ovviamente dalle tematiche della tragedia shakespeariana e dagli interventi drammaturgici miei, di Angela Demattè e della dramaturg Simona Gonella. I temi principali su cui intendiamo concentrarci sono essenzialmente quelli legati al rapporto con il padre, alla possibilità di essere padre e al significato di essere figlio. Poi c’è il filo importantissimo delle streghe con l’aspetto misterioso dell’opera che ci chiede di immaginare un archetipo contemporaneo di Ecate. Cosa è Ecate oggi? Dove trova casa nel mondo moderno quest’ombra?
Il laboratorio, quindi, sarà suddiviso in tre grandi parti: un lavoro sulle biografie degli attori e quindi dell’attore su se stesso; un lavoro dell’attore sul personaggio e un lavoro sull’archetipo, sull’inconscio collettivo. Al fondo di tutto ci sarà il rapporto con quella cultura del male di cui vogliamo a ogni costo liberarci ma che invece subiamo quotidianamente e forsennatamente.

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Cosa ha rappresentato per lei l’incontro e la collaborazione con Luca Ronconi?

Ho incontrato Ronconi proprio a Santacristina nella prima sessione di laboratorio estiva organizzata da lui e Roberta Carlotto. Per me, giovane regista, fu un incontro importantissimo, cruciale, un’esperienza illuminante, che mi ha cambiato radicalmente e per sempre. Ronconi in quel contesto e in quel periodo aveva riallacciato il suo rapporto con la pedagogia nel valore più alto del termine. La intendeva come un passaggio, una comunicazione sempre accesa tra chi dà e chi riceve. Nei quattro anni successivi ho avuto la fortuna di fargli da aiuto regista per i suoi spettacoli. Senza contare il fatto che è stato lui a permettermi di entrare in contatto con il Piccolo, con Sergio Escobar. Gli devo davvero molto.

Venendo proprio allo spirito della Scuola d’estate di Santacristina, che tipo di insegnante era Ronconi secondo lei?

Luca era un Maestro nel senso letterale del termine. Non era un insegnante. Non aveva un metodo, delle regole. Tu allievo dovevi rubare, dovevi capire ciò che passava in modo sotterraneo. Grazie a lui ho compreso che la trasmissione di certe sapienze avviene in modo del tutto misterioso. Certamente, bisogna saper guardare e ascoltare con la massima attenzione. Ronconi non era mai esplicito o diretto. Anzi, direi che fosse quasi sempre implicito e indiretto. Tanto che, solo dopo la sua scomparsa, certe verità mi si sono palesate in modo netto. Ma appunto c’è voluto del tempo. Verità che riguardano soprattutto la rappresentazione della realtà. O meglio, quale mistero ci sia nella rappresentazione della realtà. Ai tempi dei suoi primi insegnamenti non le coglievo, poi ho capito che tutto si gioca nel rapporto con l’attore. E lavorare con Ronconi è stato fondamentale per raggiungere questa consapevolezza.

Lei dirige la Scuola di Teatro del Piccolo intitolata proprio a Ronconi. Che idea ha dei giovani che si affacciano oggi alle professioni teatrali?  

Credo che, al di là del lavoro di regista che amo molto, la mia vera vocazione sia proprio quella della direzione della Scuola del Piccolo. Sento una necessità reale, autentica, di lavorare con i giovani non solo perché è importante trasmettere la tradizione teatrale, ma anche e soprattutto perché mi rendo sempre più conto che i ragazzi di oggi non hanno alcun rapporto con la memoria. Sono svegli, attenti, veloci ma non concepiscono il senso del passato. Stando così le cose, mi sono convinto che il compito di ogni percorso formativo –  soprattutto in campo artistico – sia quello di cercare di dare ai giovani delle chiavi di comprensione profonda del presente attraverso strumenti di raccoglimento di memoria. Ne sono sprovvisti e questo è pericoloso. Bisogna guidarli a guardare il mondo nella sua complessità. Bisogna instillare in loro il desiderio della complessità. Non è un caso che in tutti i miei lavori, i cui cast sono spesso formati da giovani allievi o ex allievi della Scuola, io affronti il tema del rapporto con il passato. La complessità del presente è leggibile solo attraverso la conoscenza del passato.

Questo discorso sembrerebbe voler riaffermare con forza il ruolo sociale dell’attore. È così?  

Certo. Bisogna far capire che questo è un lavoro essenzialmente politico. Il teatro deve sapere guardare al mondo e deve saper dare delle ipotesi di analisi. La forma per arrivare a questo non può che essere un terreno comune di ricerca, la condivisione. Alla Scuola del Piccolo, per esempio, ho deciso di togliere la distinzione tra insegnamenti tecnici e recitazione per favorire l’idea di uno spazio/tempo condiviso dove insegnanti e studenti possano trovare insieme la strada di questa ricerca e il nuovo patrimonio linguistico necessario a percorrerla. Il mondo sta incontrovertibilmente cambiando. Stiamo cambiando tutti. Ci vogliono nuovi archetipi; l’uomo sta vivendo una mutazione genetica e bisogna capire la fisionomia di questa mutazione.

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Nel libro curato da Agosti, Ronconi a un certo punto definisce il rapporto tra regista e attore come qualcosa di violento. Parla del ‘potere’ del maestro. Può spiegarci meglio questi concetti?

La violenza è fondamentale a teatro, obbligatoria direi. Il teatro si regge su due paradigmi irrinunciabili che sono il gioco e la violenza. Tutto ciò è dionisiaco; è teatro nella sua natura primigenia. Gli attori devono capire che questa violenza ha a che fare non solo con il regista ma con l’interpretazione stessa del mondo. Da sempre la scena, se vuole essere incisiva, deve raccontare il mondo attraverso la storia della sua violenza. Prima gli attori se ne rendono conto e meglio è. Il teatro in questo senso è un luogo estremamente pericoloso, uno dei più pericolosi per l’umanità. Bisogna togliere ai giovani interpreti l’idea che il palcoscenico sia un luogo innocuo dove presentare le proprie istanze agli altri. No. È un terreno impervio, accidentato. Se capiscono questo, possono diventare liberi, disponibili, perforabili e perforati. Serve una generazione di artisti capace di affrontare un mondo nuovo, una nuova realtà.

Realtà è la parola-chiave del convegno previsto a Santacristina il 23 luglio ed è anche il tema su cui si concentrerà il suo intervento alla tavola rotonda. In che termini oggi possiamo parlare della relazione tra teatro e realtà?  

È un nodo spinoso, una tematica su cui mi interrogo da tempo. La prossima stagione artistica di LuganoInsScena l’abbiamo intitolata Impressione di realtà e nel cartellone figurano molti artisti che usano il teatro come documento di analisi della realtà. Siamo in molti a chiederci cosa oggi possa essere la rappresentazione teatrale perché la dose spietata di realtà cui siamo soggetti ogni giorno ha provocato un abbattimento della distinzione tra attore e persona. Sempre più spettacoli portano in scena interpreti non professionisti, gente comune. D’altro canto, però, l’artista, il teatro sono sempre portatori di una finzione. E allora: cosa è vero? Cosa è falso? Fino al ‘900 la chiave di lettura del teatro era semplice: la rappresentazione era artificio. Ma dall’inizio del nuovo millennio le cose sono profondamente cambiate.
Nel mio intervento cercherò proprio si illustrare come il concetto di ‘artificio teatrale’ abbia ormai preso altre strade. Più che di rappresentazione oggi dovremmo infatti parlare di ‘simulazione’, cioè di una possibilità di slittamento tra realtà e finzione. Esiste anche un’affascinante teoria secondo la quale l’ottica sarebbe cambiata dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Aver visto la realtà frantumarsi davanti ai nostri occhi avrebbe segnato uno spartiacque tra il prima e il dopo, il passato e l’oggi. La realtà non è dunque più rappresentabile. La si può al massimo simulare. Ovviamente è un campo di riflessione del tutto aperto. Dove poi va anche inserito il rapporto del teatro con la tecnologia, con il video, con il cinema. Lo trovo tuttavia molto interessante e molto adatto al contesto formativo di Santacristina.

 

LA SCUOLA D’ESTATE  2019
Centro Teatrale Santacristina
15 luglio-14 agosto 2019
con Massimo Popolizio e Carmelo Rifici

Convegno  Il filo del presente: il teatro tra memoria e realtà
a cura di Giovanni Agosti e Oliviero Ponte di Pino
22 luglio: Il valore della memoria nello spettacolo dal vivo: gli archivi
23 luglio: Teatro e realtà

Per consultare il programma completo: www.ctsantacristina.it; www.lucaronconi.it
Per informazioni: Giulia Moretti ctsantacristina@libero.it