GIORGIO FRANCHI | Un uomo e suo figlio fanno un incidente in macchina e rimangono gravemente feriti. Vengono portati in due ospedali diversi; non appena fanno scendere il figlio dall’ambulanza, il chirurgo dice di non potersene occupare: quel ragazzo, infatti, è suo figlio. Cos’è successo?
Potremmo elaborare tutte le congetture del mondo su tradimenti di vecchia data, immaginarci che il figlio sia stato adottato o pensare a una famiglia con due padri. Oppure, più semplicemente, il chirurgo potrebbe essere donna.
Questo indovinello miete sempre un discreto numero di vittime; è quasi una certezza che chi lo sente escluda a una a una le trecentocinquanta ricostruzioni del misfatto alla Agatha Christie, prima di giungere, eventualmente, all’ovvia risposta. Eppure, il 41% dei medici, in Italia, è donna: di fronte a queste percentuali, come facciamo a cascarci ancora?
La causa potrebbe essere ancora più elementare: non esiste una parola per indicare il chirurgo donna. L’uso generalizzato del maschile ci porta da subito a pensare a un chirurgo uomo, anche se siamo paladini e paladine del femminismo militante.
In Italia l’introduzione della variante femminile per certe professioni è ritornata negli ultimi anni con l’operato di Laura Boldrini, che nel periodo della sua presidenza ha introdotto il linguaggio di genere negli atti della Camera; la risposta dell’opposizione, politica e giornalistica, non ha tardato a insorgere contro il presunto vilipendio alla lingua italiana. Nella corrente legislatura, la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, interrogata sulla questione, domanda l’uso del maschile ‘presidente’ in loco di ‘presidentessa’ (mai voluto da Boldrini, che nel suo sito cita la Crusca, che a sua volta cita la definizione di ‘presidentessa’ come ‘moglie del presidente’ secondo Migliorini nel 1938). Erika Stefani, Ministro degli Affari regionali con la Lega Nord, predilige l’uso del maschile, affermando, in un’intervista a Io Donna: «Nella mia vita ho conquistato dei traguardi, sono avvocato, senatore e ministro. Non ritengo invece una conquista fare finte battaglie terminologiche di nostalgiche femministe». La dicitura al femminile delle cariche politiche sarebbe quindi una mera questione di forma, inutile sul piano pratico.
Ciò che è certo è che quella del genere è una delle questioni grammaticali più complesse della nostra lingua che, come tutti gli altri idiomi dell’ovest mediterraneo (eccezion fatta per il basco, che non ha nemmeno un vero e proprio genere) non dispone del neutro. Provate a spiegare a un inglese perché ‘la sedia’ è femminile e ‘il tavolo’ maschile e vi guarderà come degli alieni.
Prima di Boldrini-Stefani, la disputa sul genere delle parole vedeva come contendenti nientemeno che Filippo Tommaso Marinetti e Gabriele D’Annunzio ed era imperniata attorno all’oggetto di culto del futurismo: l’automobile. Trattandosi di un’invenzione recente, il prodigio della tecnica non disponeva di un’etimologia solida a cui aggrapparsi, attendendo pertanto un battesimo secondo il genere che più gli si confacesse. Marinetti vuole il nome maschile: l’auto è forte, rumorosa, possente (da Lussuria-Velocità, 1921: Formidabile mostro giapponese/ dagli occhi di fucina, / nutrito di fiamma/ e d’olî minerali, / avido d’orizzonti e di prede siderali…); la spunta invece il Vate, che in una lettera di ringraziamenti a Giovanni Agnelli, che gli donò una Fiat 509 cabriolet, scrive che l’automobile «ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza».
Se due poeti illustri come Marinetti e D’Annunzio confermano che esiste una correlazione tra parola e mentalità, gli studi di relatività linguistica ne ipotizzano la biunivocità. Secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf, la lingua parlata influirebbe sul modo di pensare dell’individuo. Ne parla in una conferenza per TED la professoressa (qui, sul suffisso -essa, il Migliorini non si pronuncia) e studiosa di scienze cognitive Lera Boroditsky, analizzando il termine ‘ponte’ nella lingua spagnola e tedesca. Un’indagine rivela che gli spagnoli associano a ‘ponte’ aggettivi come ‘forte’ e ‘lungo’, mentre i tedeschi ‘elegante’ e ‘bello’: aggettivi stereotipicamente legati a un genere, che è infatti maschile in el puente e femminile in die brücke. Questo avallerebbe quindi la teoria di Sapir-Whorf, nonché l’operazione voluta da Laura Boldrini.
Ma perché ne parliamo? Perché la tematica di genere è più importante che mai, in questo periodo di forte sessualizzazione della comunicazione politica. L’adozione del termine maschile da parte di tutte e cinque le donne del Consiglio dei Ministri del Governo Conte (oltre alla già citata Erika Stefani, Barbara Lezzi, Elisabetta Trenta, Giulia Bongiorno e Giulia Grillo) è un segnale chiaro di distacco dal governo Renzi traslato sulla battaglia dei sessi, così come la reintroduzione di ‘padre’ e ‘madre’ al posto di ‘genitore’ nei moduli per la richiesta della carta d’identità per il minore. L’estensione del genere maschile, sul piano strettamente linguistico (quello politico lo lascio a chi se ne intende più di me), è ampiamente funzionale alla narrazione di un Paese gestito come una famiglia anni cinquanta, che prospera sotto l’egida di un patriarca «papà di sessanta milioni di italiani», a cui spetta il compito di tramandare i valori di «ordine» e «buonsenso» e di punire i figli che sgarrano; tra questi, la comandante di una nave che, dovendo pagare per aver forzato il blocco della Guardia Costiera, si trova a far fronte anche all’aggravante di essere donna, con tutte le umiliazioni intrise di paternalismo che il dizionario riserva alle bambine ribelli: viziata, sbruffoncella, signorina, figlia di papà e le immancabili, lapidarie virgolette attorno a ‘capitana’. Perché al maschile, ‘capitano’ è un grado militare; al femminile, un appellativo scherzoso per una ragazzina che gioca ai pirati.