LAURA BEVIONE | Partiamo dalla fine, per una volta: Marco Baliani, pantaloni e camicia blu, seduto a un lato del palco, racconta un episodio capitatogli quando era ragazzo, uno studente di liceo che aveva scelto di non nascondere la propria idea politica, di dire ciò che riteneva giusto e di denunciare le ingiustizie. Una posizione che gli costò uno scontro con un gruppo di coetanei che avevano deciso di stare dalla parte opposta e che non esitarono a pestarlo, mentre i suoi compagni fuggivano, lasciandolo solo. Ecco, è proprio quel sentimento di solitudine, profonda e immedicabile, che l’attore dice di avvertire ancora oggi, un vuoto disperante che prolunga all’eterno i pochi minuti del pestaggio.

Quel sentimento, confessato da un uomo che è poi diventato attore, optando per un’arte che è rito collettivo, generatrice e cemento di comunità, è stato il punto di partenza di uno spettacolo, Una notte sbagliata, che di solitudini ne racconta più di una, baratri dai quali i personaggi chiamati in scena tentano di fuoriuscire in modi diversi, egoistici ma pure quietamente rassegnati.

1.Marco Baliani_Una notte sbagliata_ph Marco Parollo
Foto Marco Parollo

Baliani è Tano, ex paziente psichiatrico, uomo tranquillo che vive con la madre e il cagnolino Uni, che ama portare a spasso fra le strade e il giardinetto della desolata periferia in cui abita – foglie secche per terra, tre travi arrugginite poste in orizzontale che sono fredde panchine e cinque monoliti in cemento a delimitare lo spazio: così la scenografia disegnata da Lucio Diana.
Su quello sfondo vengono a tratti proiettati disegni semplici, da bambino – il cane, scritte reiterate, volti e corpi stilizzati – riflessi concreti della prospettiva sulla realtà di Tano, che si muove circospetto e un po’ inclinato su se stesso, una cuffia di lana calcata in testa e un pile, tutto scuro. L’uomo descrive le medicine che è costretto a prendere e che gli rallentano un po’ il pensiero e la reattività; racconta le visite al centro psichiatrico e quelle della nipotina, che lo chiama zio; parla del suo cane Uni, che gli è sempre accanto.

E proprio quando una sera – molto tardi, è già notte – Tano deve uscire di casa per portare fuori il suo Uni, si compierà il suo sfortunato destino. C’è in giro una volante della polizia, impegnata a dare la caccia agli spacciatori che popolano il giardinetto. I poliziotti scorgono su una panchina un ragazzo di colore – Tano lo conosce bene, è un suo amico – ma Uni abbaia forte e il giovane riesce a scappare. Gli uomini della volante, però, hanno già chiamato rinforzi, non possono certo fare brutta figura, è necessario trovare qualcun altro – è sfuggito il «negro» ma quella zona è piena di «balordi» – per portare a casa un successo.
Tano – che uno dei poliziotti conosce bene – diviene così la vittima predestinata, il balordo (è sempre in giro con il suo cane e si prende pure una pensione) da sacrificare per giustificare la propria divisa, per convincere i propri figli e soprattutto se stessi della legittimità e della necessità del proprio ruolo nella società.

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Foto Marco Parollo

Baliani sa bene che la realtà non è in bianco e nero, bensì colma di sfumature e così come non distingue in modo manicheo bene e male, allo stesso modo non giustifica né assolve. L’interprete – che è Tano ma pure i poliziotti, dando prova di ammirevole e quasi naturale flessibilità attoriale – manifesta cosa passa nelle menti dei personaggi coinvolti, compreso il cane Uni, senza chiosare né suggerire esplicitamente interpretazioni ovvero valutazioni. La frustrazione dei poliziotti – stipendi bassi, molti pericoli e forti pressioni da parte di capi e opinione pubblica – e lo smarrimento di Tano, la necessità di un capro espiatorio e l’inconsapevolezza di essere un uomo “sacrificabile”.
Baliani ci rende spettatori – con le parole, con i monologhi paralleli del protagonista e degli uomini di “legge” – del pestaggio e dunque il pubblico avverte sul proprio corpo ogni singolo calcio, ogni pugno. E, soprattutto, prova quel sentimento di solitudine condiviso da Tano, certo, ma pure dal suo cagnolino, che abbaia disperato, e anche dai poliziotti, isolati dalla propria stessa frustrazione.

L’attore, come dicevano, non condanna né giustifica esplicitamente: ciò che gli interessa non è tanto realizzare uno spettacolo di denuncia sociale, quanto indagare e avvicinarsi il più possibile a capire quei vuoti, quegli abissi apparentemente insondabili che si aprono nel paesaggio tutt’altro che placido e idilliaco della mente e del cuore degli uomini.
Un’indagine che si articola in repentini cambi di prospettiva – l’attore ora è Tano, ora un poliziotto, ora se stesso nelle vesti di narratore – che forse disorientano lo spettatore ma che in realtà mirano a tenerne vivo il pensiero, a impedirne sterili fossilizzazioni. Ecco, allora che, dopo il pestaggio, Baliani si tramuta in conferenziere e si rivolge al pubblico, rispondendo alle domande registrate con le quali i non esperti, la gente comune, tentano di comprendere il perché della violenza cieca, di quel momentaneo sonno della ragione che fa di uomini rispettabili volenterosi picchiatori.

Un espediente teatrale che testimonia ulteriormente la sostanziale assenza di spiegazioni e di soluzioni, l’insondabile profondità dell’animo umano, abitato tanto dall’amore disinteressato e genuino quanto dall’odio, cieco e a volte improvviso, un istinto generato da chissà quale antro oscuro.

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Foto Marco Parollo

Marco Baliani complica e approfondisce ulteriormente il suo teatro fondato sulla narrazione: non soltanto formalmente, alternando punti di vista, uscendo e rientrando nei differenti personaggi e facendosi pure coro e narratore esterno; bensì anche nei contenuti, proponendo una maturazione universalizzante del teatro di impegno civile, che mira a illuminare angoli in ombra del nostro essere umani così come a condividere stati d’animo ricorrenti e dolorosi, vuoti che non si riescono a riempire.

In quella notte sbagliata, ci dice l’attore, tutti noi potremmo essere Tano ma pure i poliziotti, accomunati da quel sentimento di irrisolvibile spaesamento di cui ci racconta in conclusione dello spettacolo. Sta a noi scegliere come accostarlo e affrontarlo: dimenticarlo per qualche istante accanendoci vilmente sul capro espiatorio del momento oppure imparare a conviverci, magari condividendolo con gli altri, in quel rito di commossa ma lucida partecipazione che a volte sa ancora essere il teatro, quando, come in questo caso, è frutto di urgenza reale e nuda onestà.

 

UNA NOTTE SBAGLIATA

di e con Marco Baliani
regia Maria Maglietta
scena, luci, video Lucio Diana
paesaggi sonori Mirto Baliani
costumi Stefania Cempini
disegni Marco Baliani
produzione Marche Teatro

Teatro La Cucina, Ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, Milano
30 giugno 2019