MATTEO BRIGHENTI | Viviamo di equilibri. Costruiamo riti di normalità per conservare il ruolo che siamo diventati ogni giorno. In famiglia, sul lavoro, nella coppia. Un incontro di parti che ci fa (pensare a) essere come gli altri: al loro pari. Ciccioni con la gonna di Nicky Silver solleva le maschere di una siffatta convivenza e le scopre crudelmente, drammaticamente vuote.
L’identità degli Hogan, di Howard, di Phyllis e del loro figlio Bishop, e quella di Pam, un’attrice amante di Howard, che di professione fa il regista, non è una loro scelta, né tantomeno li identifica una volta e per sempre. Piuttosto, è la forma estrema che assume l’adattamento al mutare di ambienti e situazioni. Un’aria, uno stile che dissimula la continua, eppur inascoltata, richiesta di aiuto, di ascolto, di comprensione. Lo scherno del prossimo, la rivendicazione della superficialità sono i colpi alla rinfusa dati alla propria malinconia, nella speranza che non si trasformi mai in senso di abbandono, di solitudine.
Vista in occasione dell’anteprima al Lavoratorio di Firenze, questa commedia cupa e cruda del 1989, questo dramma sanguinario e sanguinolento tradotto e diretto da Michele Demaria per la prima volta in Italia, ha vinto recentemente a Roma il Festival Inventaria 2019 «per l’attento vaglio registico di ogni componente estetica e funzionale dello spettacolo, […] che consegna allo spettatore un lavoro artisticamente completo e appassionante».
Infatti, le anime dei personaggi sono corrotte come le nostre. Solo che, invece di illudersi di aiutarsi a vicenda a rimetterne insieme i pezzi, loro, siccome stanno a teatro, possono tirarseli dietro, dicendo e facendo l’impensabile, con il sorriso stampato in faccia. Il concetto del limite, della misura, è un punto di non ritorno spinto ogni volta più in là, fino all’inverosimile. Fino a che la vicenda non precipita nel baratro e i corpi nella tomba.
La scena è un’ultima spiaggia di sabbia e casse di legno. Sperduta chissà dove, deserta, abitata soltanto da rifiuti, da scarti portati dalla risacca di una qualche tempesta che ha mescolato l’alto e il basso, gli uomini con gli animali. E viceversa, tanto che gli uni hanno la testa degli altri.
Smesse, difatti, le sembianze da scimmia, assunte da tutti per l’ingresso iniziale di gruppo, scopriamo Phyllis (Silvia Salvatori) e Bishop (Nicola Sorrenti) scampati a un disastro aereo durante un viaggio di vacanza verso l’Italia. Il ragazzo, insicuro, balbuziente, interpreta il mondo attraverso i film di Katherine Hepburn; la donna, apatica, scostante, vede la realtà per come s’intona al suo vestito di Michael Kors o alle sue scarpe di Jimmy Choo.
Il loro legame, in questo momento, è ancora a “trazione materna”, fra l’invito al figlio ad andare a giocare con i morti, le alghe paragonate al sushi e i rossetti per pranzo e cena. L’assurdità, il nonsenso scioccante e incredibilmente divertente di simili reazioni si regge su una completa estraneità e insensibilità ai fatti, a sé e all’altro da sé. Phyllis e Bishop si comportano come se niente fosse, o meglio come se fosse niente: ogni cosa sembra apparire loro uguale a prima, semmai soltanto un po’ più “scomoda”.
Il rosso fuoco attorno alle labbra si tinge presto di sangue. La sopravvivenza chiede che le sia versato un tributo di bestiale realtà: il cannibalismo. Nei mesi, negli anni trascorsi su quella costa dimenticata da Dio mangiano cadaveri ormai putrefatti, ma si cibano anche del passato, di ciò che li ha portati fino a lì e a essere ciò che sono adesso.
La morte, il cambiamento, una volta digeriti, provocano un’inversione nel rapporto di forza: il figlio s’impone decisamente sulla madre. Il possesso diventa una dipendenza fisica, intellettiva ed emotiva, tale da dare vita a una vera e propria unione carnale. La lingua del giovane non inciampa più nella balbuzie, anzi, corre a suggellare un tenero e violento incesto. «Ciccioni con la gonna – afferma Silver medesimo – è, in definitiva, una storia d’amore, anche se abbastanza anticonvenzionale».
Prende quindi in mano la situazione, unico signore e padrone, Bishop, il figlio non voluto, rifiutato dalla nascita in avanti. Ha attraversato la sua esistenza come uno spettatore: per questo ci troviamo a teatro. I suoi ricordi, la memoria del tempo, sono un gioco a incastro di spazi e situazioni che gli attori ricostruiscono a vista, davanti ai nostri occhi. Dei flashback interrompono i pasti feroci a base di arti umani per introdurre le carni, altrettanto da macello, di Howard (Roberto Salemi) e poi di Pam (Ludovica Apollonj Ghetti).
La sabbia sotto i piedi e le casse di legno restano lì e, di conseguenza, pure il tono non cambia acidità. «Siamo attratti da ciò che ci repelle» è il sentimento che fa incontrare e unire in matrimonio Howard e Phyllis. «Possiamo chiamarlo bimbo» è la dolcezza con cui la madre accoglie l’arrivo di Bishop. Pam, che vede in Howard il sogno realizzato di lasciare il porno per ruoli più maturi, fa uso di droga «strettamente ricreativo».
Si sbattono in faccia chi sono per non perdersi, ma sono tutti spiaggiati, naufraghi e no, come sotto il sole battente dello Straniero di Albert Camus (le luci sono di Michelangelo Vitullo): i disorientanti riflettori della società del consumo, che si fa edonismo. D’altra parte, l’americano Nicky Silver, classe 1960, scrive Ciccioni con la gonna in epoca Reagan-Thatcher.
Sono fuori di testa, ecco che allora rientrano tutti in scena con le teste di scimmia, prima che Phyllis e Bishop vengano miracolosamente salvati dall’isola, cinque anni dopo l’incidente aereo. Le creature che si presentano alla porta dell’appartamento di Howard, nel frattempo condiviso con Pam (incinta di lui), somigliano però solamente nell’aspetto alla madre e al figlio partiti per l’Italia. Phyllis ha la sabbia in capo, il suo mondo ora è uno stato confusionale che ruota attorno a Bishop, mutato in una bestia d’uomo immune a freni e inibizioni.
Così, questo truce ed esilarante viaggio dalla civiltà alla natura selvaggia scopre gli effetti del ritorno, cioè dalla natura selvaggia alla civiltà. Non sanno cosa dirsi, perché non hanno nulla da spartire gli uni con gli alti. Sono bloccati senza una direzione, senza un senso che non sia quello di colpa. Howard, ad esempio, non ha il coraggio di rivelare alla moglie che intende sposare Pam, al punto da costringerla a nascondersi nell’armadio e a fingersi la cameriera.
Gli sviluppi sono tipo da Hannibal di Thomas Harris a Edipo re di Sofocle: la vita è niente e può essere tolta come niente. Se prima cadevano a terra la gentilezza, il riguardo, la premura, ora la fine tocca proprio alla vita. La regia di Demaria è attenta, sicura e compassionevole: in fondo, vuole bene ai Ciccioni con la gonna, come gli attori, che assecondano le follie di ogni loro carattere quasi con spirito di amicizia. Magari non le condividono, ma certo non le giudicano.
Di isolamento in isolamento, la commedia nera, il vaudeville, il dramma giudiziario, la farsa, il grandguignol e il teatro dell’assurdo, che animano la sarabanda metateatrale della caduta degli Hogan, si chiudono in un manicomio. La resa dei conti finale di Bishop con la sua mostruosità è un atto di dolorosa presa di coscienza: per lui, reificato fin da piccolo, non esistono persone amate, ma oggetti. E quando non gli servono più, li butta via.
In un universo fatto di cose, dunque, l’omicidio è un prezzo come un altro. Quello che conta davvero è continuare a desiderare di avere. Ancora e ancora.
CICCIONI CON LA GONNA
di Nicky Silver
con Ludovica Apollonj Ghetti, Roberto Salemi, Silvia Salvatori, Nicola Sorrenti
musiche originali Giorgio Mirto
luci Michelangelo Vitullo
assistente alla regia Bruno Prestigio
regia e traduzione Michele Demaria
coproduzione Nuovo Cinema Palazzo_Contrabbando
Il Lavoratorio, Firenze
26 maggio 2019