GIORGIO FRANCHI | 10 dicembre 2013: l’europarlamento vota contro la mozione – che non passa per soli sette voti – dell’eurodeputata portoghese Edite Estrela riguardante il diritto all’aborto sicuro in tutti gli Stati UE. Nove giorni dopo, il quotidiano francese Le Point riporta la notizia secondo cui all’origine del voto a sfavore degli eurodeputati di sinistra ci sarebbe un errore di traduzione: l’invito di Estrela, in lingua portoghese, a votare contro la mozione alternativa proposta dalla destra, trasposto in francese avrebbe richiesto il voto a favore della stessa.
La ricerca di una lingua franca europea tra le 24 previste dal registro delle Lingue ufficiali e di lavoro dell’UE è ormai una necessità non solo per la costruzione di una comunità sociale e culturale, ma anche per questioni meramente pratiche interne ai lavori parlamentari europei. L’ipotesi trilingue, quella di ridurre il lessico parlamentare ai tre idiomi più diffusi in Europa (inglese, francese e tedesco), ipotizzata con la strategia di Lisbona nel 2000 e applicata de facto con la non traduzione in altre lingue dei documenti UE, è risultata inefficiente e iniqua verso i Paesi del sud ed est Europa. L’adozione del solo inglese farebbe pendere l’ago della bilancia verso i Paesi anglosassoni (soprattutto ora, che siamo in tempo di Brexit…), privilegiando inoltre chi già parla una lingua grammaticalmente più simile, come il danese o l’olandese.
Nell’opera La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Umberto Eco si esprimeva a favore dell’Esperanto, lingua artificiale nata dal medico polacco Ludwik Zamenhof nel 1987, con lo scopo di donare al mondo un’unità linguistica che garantisse la pace e l’equità tra i popoli. Prima di lui, il linguista e filologo Bruno Migliorini sosteneva l’Esperanto come lingua mondiale contro qualsiasi lingua nazionale.
«Attribuire a una lingua […] il carattere di lingua internazionale vorrebbe dire da parte delle altre nazioni accordare a quella prescelta un immeritato privilegio, quasi un protettorato morale» (da questo articolo di Alessio Giordano per Il Chiasmo.)
Due anni fa, il quotidiano La Stampa celebrava il centenario della morte del suo ideatore, titolando: Esperanto, l’utopia fallita della lingua unica europea; eppure, gli esperantisti continuano a esistere e a incontrarsi in convegni e circoli. Quello di Milano si trova in via De Predis 9 e organizza lezioni, dibattiti e conversazioni in lingua. I suoi membri, che tra loro si chiamano samideanoj (‘sodali’, ‘compagni d’idee’), mi hanno ospitato per un paio d’ore per parlare della possibile lingua del futuro. La prima cosa che sono venuto a sapere è che sono molti, ma molti di più di quelli che si possa pensare. Se gli iscritti alle associazioni diminuiscono, mi spiegano, la comunità virtuale si ingrandisce di giorno in giorno; l’anno scorso, sull’app Duolingo per imparare le lingue, circa 320.000 persone risultavano iscritte al corso di Esperanto. In barba all’utopia fallita!
Per la maggior parte dei suoi studenti, raccontano, l’Esperanto sarebbe un’ottima lingua franca per l’Europa. Il primo punto a suo favore sarebbe la velocità di apprendimento: la corrispondenza di un solo suono per ogni lettera, l’assenza di eccezioni grammaticali e la struttura agglutinante con pochi prefissi e suffissi monosillabici la rendono la lingua più semplice da imparare per il FSI (Foreign Service Institute); se per un inglese ci vogliono tra le 550 e le 600 ore per imparare l’italiano, il francese o lo spagnolo, per l’Esperanto ne bastano 150.
E per un italiano, un romeno o un macedone? Sempre 150. La peculiarità dell’Esperanto è essere una neutrala lingvo (lingua neutrale), che per struttura e vocabolario deriva in parti uguali dai maggiori ceppi europei. ‘Gatto’ si dice kato, alla latina, mentre il cane, hundo, ha antenati germanici. Basterebbero due anni di scuola elementare per la creazione di un’uniformità linguistica dal Mediterraneo al Mar di Norvegia, senza le sproporzioni che attualmente esistono tra l’inglese impeccabile degli scandinavi e quello maccheronico di italiani e francesi. È inoltre dimostrato che l’insegnamento dell’Esperanto nelle scuole primarie influisca positivamente sulla capacità di studiare altre lingue: l’esperimento del professor Helmar Frank ha dimostrato che un bambino che studi prima l’Esperanto per due anni e poi l’inglese per tre conosce meglio l’inglese di un bambino che studi l’inglese per cinque anni, imparando inoltre due lingue invece che una. I risultati raccolti hanno portato alla nascita del metodo Paderborn per l’apprendimento linguistico.
Qualcuno pone l’accento sui possibili rischi dell’Esperanto come lingua Europea. Già Umberto Eco, in un dibattito in cui è intervenuta l’esperantista Perla Martinelli, profetizzava una dialettalizzazione dell’Esperanto se questi si fosse diffuso in larga misura, fino alla frammentazione in altre lingue maggioritarie nazionali (preoccupazione espressa anche da Zamenhof, ma solo se l’Esperanto fosse stato accolto come prima lingua). Tra le tesi contrarie a Eco viene proposta quella di Robert Nielsen, fondatore del blog Whistling in the Wind, che in questo articolo sostiene che l’assenza di isolamento tra gruppi di locutori e un buon tasso di alfabetizzazione decremento le possibilità di dialettizzazione di un idioma.
In attesa di un futuro in cui gli europei parleranno Esperanto come seconda lingua (tutelando così la prima, secondo le intenzioni di Zamenhof, e con essa la biodiversità linguistica minacciata dall’alta incidenza dell’inglese), un’ottima ragione per studiarla risiede nella letteratura. Oltre a centinaia di opere originali, troviamo traduzioni di testi non esistenti in italiano. I membri spiegano che gli esperantisti traducono solo i libri che più intendono tramandare, all’infuori delle logiche commerciali degli editori. La grande versatilità della lingua ha inoltre permesso una traduzione de La Divina Commedia, ad opera di Enrico Dondi, nel pieno rispetto di metrica e rime, così come del Kalevala del finlandese Elias Lönnrot.
Saluto i samideanoj e li lascio alla loro conversazione in Esperanto, in cui da neofita riesco a captare qualche parola. A dispetto della sua artificialità, la lingua di Zamenhof potrebbe veramente essere un idioma indoeuropeo con secoli di evoluzione, passato da Stato a Stato e da cultura a cultura e prendendo qualcosa da ognuna, diventando la vera lingua di tutti; e se per D’Azeglio l’Italia s’era fatta senza prima fare gli italiani, ora è più che mai necessario fare gli europei. Studiare l’Esperanto è un primo passo.
Per ulteriori approfondimenti:
http://milano.esperantoitalia.it/?fbclid=IwAR2EK1r4mNpKVfD2Qv5HYf9dAFc3D9OC1Wwz1c1tKwtedc49ReYVHuKcwJ8
info.esperanto.milano@gmail.com