ELENA SCOLARI | In Italia siamo mammoni, si sa. Ne sono conseguenza i bamboccioni che escono dalla casa genitoriale già con i capelli grigi. In Italia i bambini li proteggiamo, li difendiamo, li imbacucchiamo e li allattiamo fino alla patente.
In Italia cerchiamo anche di portare i bambini a teatro e, in buona misura, ci riusciamo; non so se più o meno di quanto accada in altri paesi, credo ancora non abbastanza ma posso senz’altro dire che molti volenterosi insegnanti si impegnano perché i propri alunni vedano uno/due spettacoli l’anno e tante famiglie affollano le numerose rassegne domenicali organizzate a tutte le latitudini.
Si sa anche che è sempreverde il proverbio sull’erba del vicino: è sempre più verde, appunto. E l’erba olandese (no battute stupefacenti…) pare ancora più brillante: al Teatro Goldoni nell’ambito della Biennale Teatro di Venezia (diretta da Antonio Latella) abbiamo assistito alla cerimonia di consegna del Leone d’argento 2019 a Jetse Batelaan, regista che su PAC ho citato proprio in ragione della notizia del premio, quando ancora non conoscevo il suo lavoro.
Qualche mese fa, la notizia di un premio importante dato da un ente istituzionale di alto prestigio come la Biennale di Venezia a un regista che lavora nel teatro per ragazzi poteva sembrare un fatto positivo, benché un’ombra di “nazionalismo sovranista” mi facesse sentire una vocina a favore dello splendido lavoro che tanti artisti italiani fanno da decenni nel settore, senza essere riconosciuti ed equiparati per valore e capacità artistiche a chi produce teatro grande per i grandi. La riscossa del comparto, quindi, pareva arrivare tramite mani “straniere”.
Ma siamo tutti europei! È giusto non tenere troppo conto dei confini almeno in arte e in creatività, quindi contavo sulla possibilità che Batelaan fosse autore di spettacoli fuori dall’ordinario, che fosse talmente bravo da meritarsi un premio altolocato insegnando anche qualcosa ai colleghi italiani, cui forse si può ascrivere un certo tradizionalismo, sì, ma molto spesso ravvivato da slanci poetici belli e pure un poco controcorrente, talvolta.
Ecco. Invece sono rimasta perplessa di fronte a questo Leone.
The Story of the story è uno spettacolo di un’ora e mezza abbondante (già solo la durata non verrebbe mai nemmeno immaginata in Italia per bambini di 8 anni), ma questo sarebbe niente; è che si tratta di 90 minuti senza ritmo, ultradilatati, un tempo irreale e un po’ privo di gravità. Intesa come forza di. È tutto un po’ fluttuante in una dimensione che volutamente non si definisce.
In una lunga, lunga, lunga introduzione vediamo strani individui primordiali (che si aggirano anche tra gli spettatori) intenti a scoprire cose, a fare esperimenti, a provare gli utilizzi di oggetti trovati in teatro: fanno rotolare i reggicordoni, si appendono al collo i cartelli che indicano le uscite di sicurezza, si addobbano di nastro adesivo, sfregano bastoni come a voler creare la scintilla, si dipingono e ingeriscono vernice, costruiscono pertiche con gli attaccapanni per arrivare a prendere le borse del pubblico in platea, robe così. Questi esseri sono primitivi d’oggi (post-moderni?), sì perché non sono, non possono, essere scevri da saperi e abitudini acquisite.
Parallelamente viaggia un altro registro, più narrativo: una famiglia è imprigionata dentro al teatro e tenta maldestramente di giostrarsi in questo spazio. La famiglia è però bizzarra, è composta da tre cartonati giganti montati su praticabili mobili, alti circa sei metri: Donald Trump è il padre, Cristiano Ronaldo il figlio e Beyoncé la madre. Per dire.
I tre giganti parlano con le voci dei loro animatori, che li muovono (poco, date le dimensioni) nello spazio del palco. Si crea un effetto abbastanza assurdo, come immaginerete. Trump/Hans che chiede al figlioletto quele tipo di sandwich vuole, Beyoncé/Ria che non trova le chiavi della macchina con la quale vorrebbe andare in una una ferramenta (?!) col marito, il bimbo Ronaldo che non vuole seguire i genitori.
Terza linea parallela: una voce fuori campo funge, qua e là, da narratore. È la storia, quella del titolo. Ma anche qui le storie sono sovrapposte: una è quella dell’origine dell’uomo, che riprende l’aggirarsi pionieristico di quegli individui in evoluzione, per così dire; l’altra è (o dovrebbe essere) la storia drammaturgica, quella dello spettacolo, che c’è e non c’è, arranca, inciampa, non procede; incontra il bambino Ronaldo e vorrebbe raccontarsi ma balbetta, si blocca poi sparisce, insomma la storia non c’è.
Non c’è più nessuna storia da raccontare? Siamo costretti ad ammannire ai ragazzi questi personaggi icone, miseri nella loro assoluta mancanza di fascinazione, che a Cappuccetto rosso non possono nemmeno lucidare le scarpe?
Forse è questo quello che Batelaan ci vuol dire? Fin dall’Olanda?
L’unico altro punto che posso provare a sviluppare, in una riflessione su The Story of the Story, è la raccomandazione paterna che Donald fa alla sua creatura: non guardare oltre il bordo. Il bordo è la linea del palco che separa dalla platea, “the edge”. Niente di buono si può trovare oltre il bordo. Ovviamente il bambino si sporge e vedrà che c’è solo gente, al di là, gente che li guarda. E forse potrebbe valere la pena incontrarli, anche se the president li beffeggia dicendo «volete che tiri fuori il mio serpentone? Adesso mi abbasso la patta». (Penso sempre alle maestre italiche).
Dimenticavo di aggiungere che Ria/Beyoncé riesce ad andare alla ferramenta e ne torna con uno dei loro zelanti addetti: il cartonato di Kim Jŏng-ŭn.
Ora, quello che possiamo trattenere di questo lavoro è la libertà con cui parla ai bambini, senza tenerli per mano, senza accompagnarli, lasciando molto alla loro capacità di riempire vuoti di ritmo; è interessante vedere come Batelaan inserisca figure contemporanee pop di cui (a parte Ronaldo) i bambini non si interessano creando un contesto senz’altro inusuale. Personalmente io posso confondere Beyoncé con Rihanna o con la Aguilera e simili quindi non sono attendibile sul loro impatto nell’immaginazione infantile, ma detto questo The story of the story rimane uno spettacolo sfarinato, che non offre una vera soluzione alla scarsità di “storie”. Io riterrei che sia compito dell’artista (grande) scegliere una via: sublimare la pochezza che ci circonda trasfigurandola oppure costruire un’alternativa, anche incoerente, che la superi.
Molto meglio invece War, il secondo spettacolo di Batelaan inserito in programma. Bellissimi i primi cinque minuti (stavolta su un’onesta durata di 50 totali): la scena è stracolma di oggetti, praticabili, trabattelli, reti, cassettiere, lampadari, megafoni, cantinelle, un water, grandi lettere a formare la parola “guerra”, ecc…
Nel silenzio questi oggetti si muovono da soli, o meglio vengono liberati dalle loro àncore invisibili e cadono, fanno rumore, si rovesciano; un copertone appeso a una corda arrotolata viene sciolto e comincia a roteare, ad esso sono legate alcune catene che girando colpiscono altri oggetti e li scaraventano a terra aumentando i rumori.
Una scena popolata di poltergeist in cui gli oggetti sembrano animati e fanno pensare a cosa può esserci in un edificio dopo una guerra, o agli esiti di un bombardamento; le cose si assestano, creando un nuovo disordine, reagendo all’attacco subìto e scegliendo una loro posizione dove stare.
Un gran bell’inizio, anche perché dà il senso di un possibile dramma incombente. Che poi non arriverà.
Arrivano gli attori: sono tre soldati pavidi, impacciati e hanno paura dei bambini in sala, in buona sostanza giocano alla guerra simulando una lunga teoria di battaglie (numerate) dall’imboscata all’inseguimento, tutte con esiti abbastanza fallimentari. I tre soldati sono legati dai tipici rapporti spalla/protagonista, la vera trovata è che uno di loro, che descrive la situazione, parla una lingua che sembra gutturale e misteriosa invece è italiano al contrario! (La signora dietro di me ha infatti esclamato “Che linguaccia, l’olandese!”). Lo si capisce dopo alcuni minuti e con un po’ d’attenzione. Un secondo soldato traduce in italiano (con accento olandese), c’è del virtuosismo sì, nel parlare a rovescio ma c’è anche l’idea di due fazioni che non si capiscono, un problema linguistico che non ti fa riconoscere le tue parole se capovolte. E in questo c’è riflessione.
Uno dei soldati avanza poi in proscenio, stremato, dicendo che invece di farsi la guerra «non si potrebbe semplicemente parlarne?», per risolvere il disaccordo con un’innocua e giocosa battaglia di palline alla quale si invitano i bambini a partecipare; non è l’unico e vero finale ma qui possiamo vedere poesia e intenzione di ridicolizzare la guerra e gli stereotipi a essa connessi.
Rimane la sensazione di una certa generosità nell’aver sancito una carriera, seppure ancora in costruzione.
Chissà se – come si legge nella motivazione ufficiale – la scelta della Biennale (e di Latella) voleva avere un senso simbolico di riconoscimento all’ambito del teatro per la gioventù. Se sì forse servirebbe alla causa vedere più direttori artistici di festival à la page alle vetrine di teatro ragazzi.
Ma così ruggiscono i leoni in Olanda.
THE STORY OF THE STORY
di Jetse Batelaan, Theater Artemis & Het Zuidelijk Toneel
regia Jetse Batelaan
con Goele Derick, Jente De Motte, Hanneke van der Paardt, Tjebbe Roelofs, Peter Vandemeulebroecke, Jurjen Zeelen
drammaturgia Peter Anthonissen
narrazione Thomas Dudkiewicz
testo Don Duyns
consulenza artistica Piet Menu
scenografia e luci Theun Mosk
costumi Liesbet Swings
musiche Gerjan Piksen
assistente alla regia Tim Verbeek
tecnica Stan Bannier, Marq Claessens, Emile van Gils, Marieke Smits, Damir Turkanovic
leadership di produzione Klaas Tops, Tim Verbeek
con il sostegno di Dutch Performing Arts Fund NL
prima italiana (2018, 90’)
Teatro Ragazzi (età consigliata: 8+)
WAR
di Jetse Batelaan, Theater Artemis
regia Jetse Batelaan
con Martin Hofstra, Tjebbe Roelofs, Willemijn Zevenhuijzen
scenografia Wikke van Houwelingen, Marloes van der Hoek
costumi Liesbet Swings
effetti speciali Dik Beets
tecnica Marq Claessens, Marieke Smits
leadership di produzione Klaas Tops
con il sostegno di Dutch Performing Arts Fund NL
prima italiana (2017, 50’)
Teatro Ragazzi (età consigliata: 6+)
Teatro Goldoni di Venezia,
22 e 24 luglio 2019