GIAMBATTISTA MARCHETTO | Jens Hillje «riassume nella sua figura professionale tutte le caratteristiche che oggi definiscono il ruolo del drammaturgo, non più solamente artefice della scrittura o dell’elaborazione di testi teatrali come in un recente passato». È questo il passaggio cruciale della motivazione stilata da Antonio Latella, direttore del 47 Festival Internazionale del Teatro, presentando al CdA della Biennale di Venezia la proposta per l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera per il Teatro 2019.
Cresciuto tra Italia e Germania, per anni condirettore artistico della Schaubühne di Berlino con Thomas Ostermeier e Sasha Waltz, Hillje è dunque un intellettuale militante e risponde a una comunità di riferimento: quella Berlino multietnica e multiculturale nella quale il Gorki Theater collabora con i più importati nomi della scena internazionale, ma cerca anche sinergie fra giovani artisti, autori, registi, scoprendo nuovi talenti e creando anche un nuovo pubblico.
Il drammaturgo sarà a Venezia per incontrare il pubblico e per presentare due produzioni dirette da Sebastian Nübling: Es sagt mir nichts, das sogenannte Drausse il 3 agosto e Die Hamletmaschine il 4 agosto (labiennale.org).
Es sagt mir nichts, das sogenannte Drauss
Hillje, quale bagaglio si è portato dal Deutsches Theater e dallo Schaubühne?
Al Deutsches Theater e con il suo prestigioso ensemble ho imparato ad amare gli attori e il loro stile individuale di recitazione. La recitazione dovrebbe essere una componente autorale nel teatro contemporaneo. Essere precisi rispetto a ciò che si vuole dire politicamente è il focus nella tradizione dello Schaubühne. Per me l’attore come autore consapevole della propria storia è l’ideale che deriva da quelle esperienze.
Qual è il ruolo di un drammaturgo in un “teatro di comunità” come il Gorki?
Nelle prove, come drammaturgo, lavoro con il regista per una buona recitazione e una narrazione precisa. Nel dirigere il teatro, lavoro su una concisa policy artistica. Pertanto un drammaturgo nel ruolo di un direttore artistico pensa, sviluppa e formula il concetto di un teatro. Per il Gorki la nostra “comunità” è la città di Berlino. La nostra compagnia di attori e il nostro gruppo artistico sono tanto diversi quanto la città di Berlino è eterogenea e composta da molte comunità diverse. Cerchiamo e formiamo nuovi attori, scrittori, registi, drammaturghi da tutte queste comunità di immigrati. Musulmani e gay, ebrei e palestinesi, rom e vietnamiti: tedeschi di ogni tipo. E tutte le loro storie vengono raccontate sul nostro palco per lavorare su un terreno comune per noi come società civile della città. Un “Comune di Berlino” all’altezza delle sfide del nostro tempo.
Cosa intende quando definisce un teatro come “una casa aperta, illuminante e popolare”?
Questa è la tradizione di Schiller e Brecht: un teatro che è uno specchio critico per il suo pubblico, che poi rappresenta la società. Il teatro Gorki cerca di essere accessibile, soprattutto per lo stile di recitazione. Sul palco adoriamo l’umorismo e l’energia. E siamo autentici e diretti. Ti guardiamo negli occhi mentre ti critichiamo. Quindi speriamo che lo spettatore rimanga con noi anche se uno spettacolo è controverso per lui, politicamente o emotivamente. Significa porte aperte e sincerità.
In che modo concilia un punto di vista cosmopolita con la ricerca sulle radici e sulla tradizione?
Da quando i Romani conquistarono la Grecia, le culture europee si sviluppano con la strategia del mescolamento (ride). L’alternativa è la stagnazione e si finisce in un museo. Si può chiamarlo “Rinascimento”: il remix delle influenze culturali si è rivelato essere una strategia europea di grande successo. Anche se devi conoscere le tue radici e riflettere sulle tue tradizioni per mescolarti con nuove influenze. Se vuoi aprire la tua porta, è meglio aver chiaro da dove si viene in modo da poter incontrare il nuovo e l’inaspettato; soprattutto se vuoi trasformare la migrazione in una storia di successo.
Il teatro può davvero cambiare il punto di vista del pubblico?
In teatro i corpi reali si incontrano in tempo reale in uno spazio reale. Questa è un’occasione unica nell’era digitale, crea un’esperienza autentica. Credo che se vai a teatro è perché vuoi confrontarti con un’altra esperienza, con un’altra prospettiva. Potrebbe mettere in discussione o rafforzare la tua prospettiva. Ma puoi lavorare su come vedi le cose o anche le persone. Puoi cambiare il modo in cui guardi le altre persone. Ciò potrebbe cambiare il tuo punto di vista. Lo chiamo “Politik der Blicke” (uno sguardo nuovo può cambiare il tuo punto di vista). Quando abbiamo rappresentato Roma Army di Yael Ronen a Roma l’anno scorso è stato difficile per il pubblico credere che un attore geniale e ironico, biondo e gay, svedese e rom potesse essere autentico. Lo scopo per me è sempre che tu superi il tuo pregiudizio e inizi a vedere la persona come individuo di fronte a te, sul palco e nella vita.
Entrambi i lavori alla Biennale sono collegati al tema femminista. Perché?
«Vorrei che tutti gli uomini fossero femministi. Anche gli uomini dovrebbero essere liberati dal patriarcato. Questo potrebbe salvarci da un remix di nuovi fascismi (poiché non c’è fascismo senza un eroe super-mascolino).
C’è anche un focus sul tema della guerra. Dopo il XX secolo, questo è ancora un tema centrale per la cultura europea?
La paura e il trauma delle guerre sembrano ancora far parte della memoria del nostro corpo. Ancora una volta siamo così facilmente preda dalla tentazione nazionalistica. Il padre di mio nonno morì nel 1916 nella battaglia di Verdun – uno degli oltre 700mila giovani uccisi solo in quel luogo. Avrebbe dovuto essere la tomba del nazionalismo tedesco, ma non lo è stato. Anzi, è peggiorato. Questa è la mia eredità. Il lato oscuro dell’esplosione della conoscenza e della tecnologia nell’era dell’Illuminismo europeo è la guerra moderna, il colonialismo e la Shoah. Bene, preferisco decisamente la tradizione dei mescolamenti.
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