ELENA SCOLARI | Il catalogo della Biennale Teatro 2019 è un pezzo del Mose. Lo riveliamo qui su PAC a vantaggio di tutti coloro che lo hanno ricevuto in omaggio domandandosene un possibile secondo utilizzo. Il peso (1kg sano sano) ne dimostra la solidità.
Mi addentro tra le pagine verdi (come i canali veneziani, non ci sono dubbi) e trovo alcune battute di una conversazione con Oliver Frljić, regista di Mauser, dal testo di Heiner Müller, spettacolo in programma alla Biennale Teatro 2019, ultima delle tre dirette da Antonio Latella e dedicata alle drammaturgie. Frljić dialoga con se stesso, si chiede e si risponde:
– “Dove si svolge per te il teatro reale?”
– “Nella mente del pubblico. Mettiamo in scena qualcosa che però sviluppa tutto il suo potenziale semantico solamente nell’incontro con le (im)possibilità interpretative del pubblico.
A esclusione dell’im tra parentesi (usanza che spero stia passando di moda come i babbi Natale rampicanti, e per inciso auguro lo stesso destino agli asessuati asterischi che cadono al fondo di parole come car* collegh*) sono proprio d’accordo con Frljić.
Sì, perché il teatro ti fa capire qualcosa in più di te stesso, quando è buon teatro; ed è vero che ciò che rimarrà di uno spettacolo che ha colpito è la sensazione che ti ha lasciato, il pertugio di te dove è riuscito a farti entrare, di cui non ti sei più scordato.
Mauser è uno spettacolo che offre moltissimo, già nei primi minuti entra di forza nella testa dello spettatore: quei bellissimi cappottoni rossi che gli attori indossano sul nero della scena si imprimono subito nella memoria come una matita appuntita.
Il testo di Müller parla di rivoluzione, i riferimenti sono prima a quella russa, un passo autobiografico accenna poi a quella balcanica perché Oliver Frljić è nato a Travnik, in quella che è diventata Bosnia Erzegovina dopo il conflitto, ma soprattutto è il concetto di rivoluzione in sé che interessa all’autore tedesco, quella con la R maiuscola, quella per cui vale la pena morire? Ancora?
Lo spettacolo comincia con uno dei quattro attori che trascina gli altri, come cadaveri, e li mette su un tavolo, anzi ce li butta, senza troppa grazia, con evidente esibizione di tragica energia. Sono corpi giovani, che per tutto lo spettacolo contrasteranno con l’intrinseco carattere mortifero di ogni rivoluzione. Il regista li fa rotolare nella cenere, li ammucchia, li accatasta, sono corpi sudati che ti arrivano vicinissimi e ti fanno colare le gocce in grembo.
Mauser è anche un vitalissimo accumularsi di cadaveri che racchiudono in potenza una forza inarginabile: si rialzano per servire la causa della rivoluzione. Il testo ripete ossessivamente
Sapendo che il pane quotidiano della Rivoluzione
è la morte dei suoi nemici,
sapendo che l’erba deve essere strappata perché possa crescere.
Morte ai nemici della rivoluzione.
In uno dei punti più belli il soldato asservito alla causa si dice, dopo sette giorni di uccisioni rivoluzionarie: “Un dubbio si è insinuato tra la mia mano e il grilletto. Io sono il dubbio tra la pistola e la prossima vittima”. Questo pensiero è il cardine intorno a cui ruota il senso di Mauser, il primo tentennare di fronte all’altissimo costo che un ideale può costare. Perché continuare a uccidere se il prezzo della rivoluzione è la rivoluzione stessa?
Il faccione di Müller occhieggia da dietro le lenti sul grande telo a fondo scena, forse non aderisce più completamente a ciò che ha scritto, forse si guarda rappresentato con un poco di perplessità, forse non è più d’accordo con se stesso, succede. Del resto nemmeno la rivoluzione è tutt’una con se stessa.
I cinque attori (Franz Pätzold, Götz Schulte, Marcel Heuperman, Nora Buzalka, Christian Erd) sono tutti molto concentrati in un lavoro che li assorbe senza pause, è un tipo di fatica densa, di completa sovrapposizione tra ruolo e interpretazione, spaccano anche la legna, in scena, nudi, non gli viene risparmiato nulla.
La regia di Frljić è precisa, secca, molto attenta all’effetto statuario delle composizioni umane che modella con i corpi degli attori, corpi protagonisti quanto e forse più del testo, la forza delle parole non è solo accompagnata dalle azioni: è resa tangibile dalle azioni stesse, dal peso dei passi, dall’ansimare, dal calore del fiato che ti sfiora il volto quando un rivoluzionario chiede scusa, disperato, a ognuno di noi guardandoci negli occhi da pochi centimetri e punendosi ogni volta con un sonoro schiaffo sulla natica.
Compare dal buio un piedistallo con un busto di Müller in ghiaccio (molto, moltissimo deve Frljić a Nekrosius, per colori, materiali, atmosfere), l’attrice lo colpisce con un’accetta, lo spacca, lo fa in pezzi; e i pezzi finiranno nel bicchiere di whisky dell’attore più maturo per un Müller on the rocks. Finale ironico, con due gocce di cinismo, come a mandare anche un po’ in mona tutta una grave e sanguinolenta prosopopea politica, ma la sferzata del barman arriva forse tardiva: fino a pochi minuti prima sono stati tutti profondamente e drammaticamente convinti di ciò che hanno rappresentato e vissuto, senza mai nessun accenno di distacco, se non per la presenza iconica dell’autore, che – distante – ci fuma sopra.
Chiaramente iconoclasta, invece, è Cirano deve morire (Cirano si aggiunge ai numerosi altri personaggi classici che in teatro o al cinema devono o non devono morire: Cesare, Misery, Romeo…) di Leonardo Manzan, vincitore del bando Biennale College 2018 – Registi under 30. Classe 1992, romano, firma una versione del Cirano che, come sempre quando si hanno intenzioni incendiarie, finisce per esaltare (senz’altro volutamente) le qualità intrinseche dell’opera che si destruttura. Manzan compone un’opera rap, definita una riscrittura a tre voci, uno “spettacoloconcerto” che ci mostra una Rossana molto risentita per essere stata raggirata da quei due, Cristiano e Cirano, che nemmeno uniti hanno saputo formare un uomo intero, vero. Hanno sommato nel buio bellezza e poesia ma non le hanno mai dato soddisfazione reale; infatti la donna li picchia, con rabbia, già a inizio spettacolo, con una spada di gomma. L’hanno imbrogliata e lei ci è cascata. Già, ma loro, gli uomini, moriranno, uno in battaglia l’altro di vecchiaia e lei rimarrà. Certo con un pugno di mouches ma viva.
Alessandro Bay Rossi (Cirano), Giusto Cucchiarini (Cristiano), Paola Giannini (Rossana) indossano abiti d’epoca, unico richiamo visibile all’origine, cantano/recitano versi rimati e aggressivi, in una scena spoglia, un praticabile, fumi e luci da concerto, niente più.
Una lunga invettiva di Cirano (incazzato più del dovuto, francamente) dà inizio allo spettacolo, ce l’ha col pubblico, coi critici, con la Biennale… vabbè. Non perché noi ci si senta chiamati in causa in malomodo ma perché insultare – per finta – chi ti viene a vedere, chi ti finanzia, chi ti recensisce è cosa francamente démodé, noiosa, fatta e rifatta e su questo conviene rimanere nel ricordo di Carmelo Bene che orinava sulla platea.
Anche Cristiano e Cirano orinano su Rossana, tra l’altro, ora che ci penso. Un’associazione involontaria.
Leonardo Manzan ha però molte idee, migliori dell’attacco frontale: i tre personaggi sono quel che sono anche nella mente di Rostand e cioè tre ragazzi, giovani, arrembanti, arrabbiati e un po’ vanesii, Cristiano-stupido ma bello è imprigionato in un ritornello che lo definisce e lo finisce, Cirano è provocatorio, sfida tutti a duelli metrico-verbali, è troppo polemi, troppo polemi, troppo polemi tro’ (non sto sbagliando, è proprio un sequenza di un brano fatto tutto di parole tronche, molto divertente, anche questo un po’ lungo); i due uomini iniziano e finiscono giocando uno svogliato tennis in cui forse si rimpallano responsabilità e viltà reciproche.
Quando l’andamento musicale si interrompe e gli attori recitano i versi originali della commedia (commedia si fa per dire) si crea un bell’effetto di dilatazione del tempo e del significato del testo. E si sente la capacità recitativa, solida in tutti e tre.
La scrittura è veloce, talvolta spiazzante, talaltra inutilmente da caserma, sempre inventiva, citazioni di Tiziano Ferro comprese.
Bella anche la scena in cui (finalmente!) Rossana usa il naso finto di Cirano per scopi… diciamo così, goderecci e poi lo va a mettere a Cirano, poco prima che muoia, facendo coincidere icona, personaggio e nostro immaginario. Cirano deve morire, ma col suo enorme naso addosso.
Al fin della licenza, gli tocca.
MAUSER
prima italiana (2017, 90’)
di Heiner Müller
regia, scenografia e musiche Oliver Frljić
con Franz Pätzold, Götz Schulte, Marcel Heuperman, Nora Buzalka, Christian Erdt
drammaturgia Marija Karaklajić, Sebastian Huber
costumi Sandra Dekanić
luci Gerrit Jurda
produzione Residenztheater
CIRANO DEVE MORIRE
prima assoluta (2019)
liberamente ispirato a Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand
regia Leonardo Manzan
con Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Paola Giannini
drammaturgia Leonardo Manzan, Rocco Placidi
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
luci Simone De Angelis
progetto sonoro Franco Visioli
musiche Alessandro Levrero, Franco Visioli
produzione La Biennale di Venezia